Chiedo scusa a tutti, ma vengo meno alla promessa fatta nel mio ultimo post e mi invento una appendice al discorso sulla musica ai tempi di internet, perché mi sono imbattuto in una cosa tragicomica che mi va di far notare. Lo faccio con il sorriso stampato sulle labbra, e vi prego di leggermi così: la pesantezza l’ho esaurita con i post precedenti. Toh… :)

Il mio blog è strutturato in modo tale da giustificare la presenza di ciascuna canzone della mia band con una argomentazione che da esso prenda spunto, allontanandoglisi in fretta il più possibile così da rendersi stimolante e sperabilmente letteraria di per sé. Chi vorrà e gradirà potrà poi notare, in un percorso a ritroso, che quanto detto è per certi versi la sostanza della canzone presentata.

Ma l’assurdità di quanto sto per proporvi non riesco a rintracciarla in nessuna canzone dei Marlene: dunque oggi faccio una eccezione alla regola e non presento alcun nostro pezzo.

Date un occhio qua: “Il gruppo The Perris inventa un nuovo modo di distribuire la propria musica. Nel giorno dell’uscita del loro ultimo lavoro, basta scaricare “Universi piccolissimi” dal loro sito e in regalo riceverete un buono di 10 euro da spendere su iTunes o su Amazon“. 
Riconnettendosi a tutto quanto vi ho raccontato nei miei ultimi tre interventi, il bene intenzionato non potrà che avere un moto interiore di auto-convincimento della patetica situazione a cui si è giunti.

Non mi provoca attonimento ciò che si è inventato il gruppo: è in linea con la situazione di cui sopra e di cui parlavo a riguardo di Beck. Mi provoca attonimento ciò che scrive l’articolista quando parla di “mossa astuta” e di “musica indipendente costretta bla bla bla”. Ecco: la mia personale cocciutaggine nell’insistere su certe cose, che rischia di farmi confondere con ciò che davvero non sono (un noioso nostalgico fuori dal tempo), origina dalla impossibilità di accettare le tante posizioni ostinate di difesa (a volte ingenua a volte paracula, e non so cosa sia meglio o peggio) di una realtà indifendibile.

Come può, chi ama la musica (e ovviamente non penso solo all’articolista, e nemmeno penso soltanto alla categoria di coloro che di musica parlano senza farla), giustificare e tollerare un contesto che porti a certe abnormità? E come è possibile confondere l’assurdità con l’astuzia? E ancora: come è possibile non addivenire, molto semplicemente, a una comprensione empatica e culturale del fenomeno ammettendo che i problemi esistono eccome? Ma tutte ‘ste cose le ho già scritte… (altro sorriso :) )

Magari loro (i The Perris) avranno visibilità e glielo auguro (anche io un po’ gliela sto dando con queste mie parole), ma se per ipotesi fra un po’ tutti facessero come loro, a seguito di un delirio da disperazione contagiosa, per quanto tempo si crede che la nuova tipologia di offerta potrebbe avere plausibilità di esistenza e significatività? O forse che si potrebbe arrivare a un rovesciamento dei ruoli con la comunità degli ascoltatori foraggiata dai musicisti in un inviluppo surreale a chi offre di più?

Eccola qua la famigerata nuova chance che ha un gruppo al giorno d’oggi: può mettere la sua musica in rete! Wow! E ancora: wow! Peccato che lo fanno migliaia di altri gruppi in ogni angolo del mondo, se non nello stesso giorno nella stessa settimana, e peccato che ogni singola proposta si perda in un mare generosamente gratuito di un immenso tutto fatto di un tragico niente, in cui tre “mi piace” qua, sette là, e quaranta altrove non servono a un fottuto nulla. E peccato dunque che per farsi notare si scopre di poter pagare la gente affinché decida di ascoltarti. E dopo che ti hanno ascoltato?

Ti pago se mi scarichi. Gratis.
Già.

(Un piccolo groppo alla gola determina dentro me un moto di insofferenza che mi induce a scrivere l’esclamazione artificiosa tanto gradita agli internauti con la loro spesso generica indignazione: che tristezza!)

Ps: Grazie a tutti coloro che sono intervenuti alla discussione sul mio ultimo post: argomentazioni serie e poco sbrigative, pazienti, ragionate. E non irriverenti. In particolare desidero riportare un estratto del commento di Antonio, perché mi ha rammentato una cosa che ritengo condivisibile, oltreché godibile. La copio/incollo così: “Eppure di questi tempi criticare la rete è lesa maestà, anche se non se ne capisce bene il motivo. In passato l’establishment culturale (chiamiamolo così) ha sempre accolto con diffidenza ogni nuovo medium, a volte con toni che oggi ci sembrano ridicoli; all’inizio dei ’60 la pur innocua Tv era per l’intellettuale lo sterco del demonio. Invece per il web vanno tutti entusiasti. Degli illustri cretini, per dire, stanno pensando di utilizzare i tablet al posto dei libri di scuola, ché la Divina Commedia pesa troppo e si risparmiano pure soldi e carta (ma i 400 euro per quell’affare non sono mica uno sperpero).”

L’establishment culturale… Forse qua, nella sezione blog del Fatto, non bazzicano certi suoi rappresentanti, come Antonio sottintende, ma tutto può arrivare a tutti, qua in rete. E poi, in verità, io non combatto proprio nessuna battaglia: un testo dei Marlene Kuntz mi ha condotto a queste argomentazioni ardimentose, e ho detto la mia in forme articolate perché così necessitava, viste certe risposte da me percepite come assurde. Al prossimo post andrò sicuramente altrove.

 

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