Ancora una volta, a Catania, un’indagine per concorso esterno in associazione mafiosa nei confronti di uno degli uomini più potenti della città ha un colpo di scena. Questa volta tocca a Mario Ciancio Sanfilippo, editore-direttore del più influente quotidiano etneo, La Sicilia, e imprenditore edile: il gip di Catania Luigi Barone ha deciso in questi giorni di non accogliere la richiesta di archiviazione dell’accusa a suo carico avanzata dai magistrati. Proprio come, quest’anno, è già successo all’ex governatore siciliano dimissionario Raffaele Lombardo, al fratello Angelo – deputato nazionale Mpa – e al senatore Fli Nino Strano. Sempre da parte dello stesso giudice. Se nel caso dei Lombardo la scelta del gip ha portato all’imputazione coatta, Ciancio dovrà attendere l’udienza già fissata da Barone per conoscere il suo destino giudiziario.
Una notizia che arriva a pochi giorni da un’altra sconfitta in tribunale per l’editore l’etneo: l’obbligo di reintegro, dettata dalla corte di Appello di Catania, per sei giornalisti della sua emittente televisiva Telecolor licenziati senza giusta causa nel 2006. Membro del consiglio di amministrazione dell’Ansa – di cui è stato vicepresidente – insieme alla figlia Angela; ex presidente della Fieg; titolare di quote in diversi giornali, tv e radio locali e nazionali; proprietario di uno dei maggiori stabilimenti tipografici del Sud Italia e dell’agenzia di pubblicità Publikompass, a mettere nei guai Ciancio sarebbero stati i suoi interessi non nell’editoria ma nell’edilizia. E, precisamente, nella costruzione di un centro commerciale La Rinascente-Auchan vicino all’aeroporto etneo, nei pressi del quartiere Librino. Opera che, secondo i magistrati, avrebbe visto anche la partecipazione di esponenti della criminalità organizzata.
In un’intercettazione del 2001 tra un indagato per mafia e un presunto rappresentante de La Rinascente, è il primo a citare Ciancio come colui che si occuperà di tutte le autorizzazioni per il terreno scelto. Appezzamento che, anni dopo, diventa effettivamente edificabile con una variante al piano regolatore generale. E’ da qui che si parte per arrivare, a marzo 2009, all’iscrizione dell’editore etneo nel registro degli indagati. Ma nel fascicolo non c’è solo questo. Tra le carte, anche testimonianze ed episodi che hanno fatto un pezzo di storia dell’informazione a Catania. Tra i più recenti, la lettera di Vincenzo Santapaola, figlio del boss etneo Nitto, detenuto come il padre al carcere duro e quindi impossibilitato a comunicare con l’esterno. Nella missiva, trapelata in circostanze mai chiarite nel 2008, Santapaola jr lamenta di essere giudicato solo per il suo cognome. Il quotidiano catanese pubblica la lettera, a firma del detenuto, senza alcuna contestualizzazione sul personaggio e la sua condizione.
Un accostamento, quello tra Ciancio e il clan Santapaola, che emerge anche nei racconti del collaboratore di giustizia Angelo Siino. E’ lui a raccontare di quella volta che il boss Pippo Ercolano, arrabbiato perché definito «mafioso» in un articolo, andò nella redazione de La Sicilia a fare una scenata. Ciancio, non presente, avrebbe saputo, racconta Siino. E invece sarebbe stato proprio lui, al chiuso del suo ufficio e in presenza di Ercolano, a sgridare il cronista responsabile secondo quanto riportato in diverse ordinanze del processo Orsa Maggiore firmate dal gip Antonino Ferrara. Ancora più indietro nel tempo, tra le carte dei magistrati, la mancata pubblicazione dei necrologi del giornalista Giuseppe Fava e del commissario di Polizia Beppe Montana, uccisi dalla mafia rispettivamente nel 1984 e ’85. E il presunto tentativo nel 1994 di screditare il collaboratore di giustizia Maurizio Avola, auto-accusatosi dell’omicidio di Fava, attribuendogli delle rivelazioni anche sul delitto del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Troppo giovane e alle prime armi per il secondo omicidio, avvertiva il quotidiano etneo. Ma Avola non aveva mai parlato di Dalla Chiesa, sottolineava il sostituto procuratore etneo Amedeo Bertone, temendo un tentativo di depistare le indagini: «Quello che è avvenuto non è stato casuale. Chi pubblicava sapeva perfettamente, per essere stato avvertito proprio da noi, che si trattava di cose false». Eppure, nei giorni successivi, “La Sicilia” continuò.
di Claudia Campese