Nel caso in cui qualcuno non se ne fosse accorto, è tornata in scena la moda! La settimana del fashion (Moda donna primavera estate 2013) che si chiude oggi a Milano ha visto la bellezza di 75 defilé e più di 60 eventi collaterali, ospiti, celebrities e il solito circo. Lo sappiamo: guai a toccare il made in Italy “che è una risorsa”, guai a non fare come i francesi che sono orgogliosi e celebrano le loro eccellenze, tutto vero. Ma si potrà pure fare un ragionamento sul settore?
Partiamo da un presupposto: la moda che conosciamo è nata negli anni ’80 come lo status symbol forse più rappresentativo delle classi dirigenti al potere in un’epoca di grande crescita e prosperità. E’ figlia del liberismo spinto di quegli anni, e dell’idea di una prospettiva di crescita ininterrotta. Solo in quel contesto poteva affermarsi un’idea di ‘lusso’ consistente nel poter pagare un oggetto povero e temporaneo (non dimentichiamoci di cosa stiamo parlando, e che il vestire resta un bisogno primario dell’uomo come il cibo e l’acqua), come fosse un’opera d’arte, 1000 o 1500 volte il suo costo di produzione.
Allora però il Pil cresceva a due cifre, la quantità di denaro circolante (nessuno si chiedeva da dove provenisse, solo oggi ci accorgiamo che era tutto a debito) generava un’euforia collettiva, illudendo il consumatore di diventare personaggio con la sola etichetta. La pubblicità spingeva ai consumi sempre più futili, ricordo di aver visto code davanti alle gioiellerie. In quel contesto la moda poté crescere e prosperare e divenne sistema, il fashion system: con i grandi marchi quotati in borsa, i divi di hollywood, le sfilate quattro volte l’anno, le riviste patinate, gli stilisti adorati come star. Tutto ciò grazie al debito di cui buona parte andava ai consumi.
Quel modello economico si è rivelato illusorio. Da noi i nodi del debito sono venuti al pettine con conseguente contrazione dei consumi a tutti i livelli. Per tenere in vita il costoso carrozzone, il fashion system sappiamo quali strategie ha adottato: ha delocalizzato (pur continuando a difendere il sacro valore del Made in Italy!), ha spinto sui mercati emergenti dei nuovi ricchi russi e giapponesi, mentre da noi ha abbassato di molto il suo target lanciando la distribuzione negli outlet. Qui però si è dovuta affermare un’idea che reputo una colossale truffa: quella del lusso per tutti, il lusso di massa, che oggi porta anche la modesta casalinga o l’impiegata o l’adolescente di provincia, a desiderare e a pagare 200 euro per un jeans che ne vale 18, o 400 euro per un piumino che ne vale 30. Le pubblicità dei grandi brand non si rivolgono più alle classi agiate – che quegli stessi vestiti casomai li ricevono in omaggio o in cambio merce – ma a consumatori vittime di una sottocultura che, con la complicità dei media sempre più aggressiva, vengono facilmente raggirati.
Significa far girare l’economia questo? Può darsi, ma io penso di no. Fa girare quella economia, che appartiene a un’altra epoca. Con duemila miliardi di euro di debito e con una classe media in difficoltà, c’è bisogno di consumatori consapevoli, che sappiano scegliere beni più utili, come ad esempio un corso di aggiornamento, un viaggio studio per il figlio, uno strumento di lavoro, una ristrutturazione, che so, un impianto Gpl meno inquinante. E’ assurdo che il sistema, al punto in cui siamo arrivati, incentivi a fare sacrifici o a indebitarsi per possedere beni effimeri.