Se pensate che per capire il destino dell’America nei prossimi quattro anni l’elezione decisiva sia quella del presidente, con la vittoria sempre più probabile di Barack Obama su Mitt Romney, vi sbagliate. Dovete osservare cosa succede al Congresso: come in tutti gli anni pari scadono una parte dei senatori e dei membri della Camera dei rappresentanti, vanno rinnovati e dai nuovi equilibri dipende anche il destino della presidenza. “Improduttivo e detestato, il Congresso se ne va a casa”, Il Tampa Bay Times, rispettato giornale della Florida centrale, riassumeva così, venerdì, il sentimento degli americani che osservano Washington, sempre più disgustati dalla loro casta. “Il meno amato e meno efficiente Congresso degli ultimi decenni lascia Washington questa settimana fino alle elezioni di novembre senza aver trovato accordi su praticamente tutti i dossier più importanti: le tasse, la difesa, la spesa pubblica, le fattorie e neppure la gestione degli uffici postali”, si leggeva sul Tampa Bay Times.
La rabbia anti-casta americana non è dovuta agli stipendi dei deputati (bassi, circa 165mila dollari all’anno lordi) ma alla loro performance: troppo bassa, il sistema di separazione dei poteri, pesi e contrappesi tra esecutivo, legislativo e giudiziario sembra paralizzato.
Nel 2006 i democratici stravincono le elezioni al Congresso, grazie all’impopolarità della presidenza di George W. Bush, l’onda arriva al 2008, la maggioranza è solida. Poi nel 2010 le cose si complicano, soprattutto per colpa dell’economia, i repubblicani conquistano la maggioranza della Camera dei rappresentanti, al Senato strappano anche il seggio del superdemocratico Ted Kennedy nelle elezioni speciali dopo la sua morte (cosa che fa quasi saltare la riforma sanitaria, cui Kennedy aveva dedicato la vita politica).
La situazione oggi è questa: la Camera, in cui i singoli Stati eleggono i deputati in proporzione al numero di abitanti, ha una solida maggioranza repubblicana con 242 seggi su 435, i Democratici ne hanno 193. Al Senato, 100 membri, due per ogni Stato a prescindere da dimensioni e popolazione, ci sono 51 democratici, 47 repubblicani e due indipendenti che di solito votano come i democratici. Lo staff di Obama in queste ultime settimane di campagna elettorale osserva con grande preoccupazione lo scenario, visto che il Congresso dei prossimi due anni rischia di essere ancora peggio di quello con cui l’amministrazione si è confrontata dal 2010.
“Ai democratici alla Camera servono 25 seggi per avere la maggioranza, ma è molto difficile. Gli scarsi risultati degli ultimi due anni hanno spinto diversi deputati democratici all’addio alla politica e quelli che si ripresentano sconteranno tutta l’impopolarità dell’istituzione”, spiega Steven Billet, per decenni lobbista e consulente di parlamentari, oggi professore alla George Washington University. Al Senato per Obama sarà ancora più dura: “Ci sono 33 seggi in palio, 23 oggi sono dei democratici. Ai repubblicani basta conquistarne quattro per avere la maggioranza. E non è difficile, visto che molti Stati avevano tradito i repubblicani nel 2006 soltanto per colpa di Bush”, spiega sempre Billet. I repubblicani dovrebbero farcela perfino in Missouri, dove Todd Akin è sopra di 4 punti nei sondaggi rispetto alla democratica Claire McCaskill, nonostante la terribile gaffe sullo “stupro legittimo” (secondo Akin il corpo di una donna è in grado di bloccare la gravidanza frutto di una violenza, se non succede è perché la vittima sotto sotto era consenziente).
Romney e molti repubblicani avrebbero voluto liberarsi di lui, ma i finanziatori si sono opposti.
“Solo il 5-8% delle leggi che cominciano il loro iter a Capitol Hill vengono poi approvate. E se togliamo dal conto le risoluzioni non vincolanti, il bilancio è ancora più deprimente”, racconta l’assistente di un deputato democratico.
A gennaio comincerà a lavorare il nuovo congresso. E già si intravede la paralisi sui temi cruciali: c’è di nuovo da alzare il tetto del debito (che per una bizzarria americana è fissato in dollari e non in percentuale del Pil), da rinnovare i tagli fiscali di Bush che stanno per scadere o affrontare le conseguenze del mancato rinnovo, da gestire la fase transitoria della riforma sanitaria (il grosso parte nel 2014), ed entrambi i candidati alla presidenza stanno promettendo interventi sulle tasse che poi sarà il Congresso ad attuare. All’osservatore europeo sembra che il caos a Capitol Hill dipenda dalla campagna elettorale permanente di deputati e senatori: “Vi dedicano almeno il 25% del proprio tempo”, spiega l’assistente del deputato democratico. È scena comune vedere membri del Congresso uscire da Capitol Hill per incontrarsi con i campaign manager, visto che è vietato usare le risorse del Parlamento, pagate dai contribuenti, per la propria attività politica.
Ogni deputato di maggioranza ha tre assistenti pagati dalla Camera, quelli di minoranza soltanto uno. Ma nel proprio collegio, con i soldi raccolti individualmente dai finanziatori, mantiene uno staff di 20 o 30 persone che raccolgono richieste, fanno promesse, presentano i risultati. Non sorprende che in questa continua ricerca del consenso – negli Usa è sempre individuale e mai di partito – l’attività legislativa si areni. Ma gli elettori americani sono abituati alla democrazia permanente, alla delega limitata e sottoposta a frequente verifica, alla tensione tra poteri che assicura un (instabile) equilibrio. Però vogliono anche risultati. E non stanno arrivando.
Il 52% degli intervistati dal Pew Research Center, un istituto indipendente, sostiene che “il sistema funziona, sono i deputati il problema”. Il tasso di apprezzamento per il Congresso è il più basso della storia, era i, 56% nel 2004 e il 25 del 2010. In questi casi gli americani hanno un solo rimedio: mandare a casa i deputati che non si sonodimostrati all’altezza. A differenza dell’Italia, la loro legge elettorale permette il ricambio e lo incoraggia.
Twitter #usa2012 @StefanoFeltri
Il Fatto Quotidiano, 25 settembre 2012