Non c’è pace per la procura di Palermo. Non erano bastate le polemiche all’indomani della conclusione delle indagini sulla trattativa tra mafia e Stato. Da quel giorno le baruffe non sono mai state placate e il “tutti contro tutti” di questi giorni ricorda il 1989 e il 1992, periodi terrificanti per la magistratura antimafia. Il pool coordinato da Antonio Ingroia viene costantemente assaltato: dalla politica, dai vertici dello Stato, dal Consiglio superiore della magistratura, persino dai colleghi. Oggi quindi la notizia delle minacce telefoniche giunte al procuratore aggiunto al centralino del Palazzo di Giustizia di Palermo non sorprendono affatto. Anzi, si potrebbero definire “minacce annunciate”. Perché è naturale che, nel momento in cui un magistrato che ha condotto indagini delicatissime su mafia e politica viene aggredito ‘istituzionalmente’, invece che difeso e sostenuto, ci si senta quasi legittimati a minacciarlo di morte.

E’ sintomatica, del resto, la richiesta degli atti dell’inchiesta sulla Trattativa da parte della Corte Costituzionale, che vuole dalla procura palermitana tutti i documenti considerati necessari per esprimersi sul trattamento riservato alle intercettazioni che coinvolgono il Presidente della Repubblica, per la sua esclusiva colpa di aver offerto aiuto all’odierno imputato Nicola Mancino. Sia chiaro: potrebbe trattarsi, forse, di una procedura legittima, seppure davvero inusuale (inedita, secondo il Fatto Quotidiano). Viene, però, da rabbrividire se si mette questa sollecitazione a vulnerare il segreto investigativo e le stesse strategie dell’organo inquirente al cospetto dell’imbarazzante e arrogante muro di silenzio che è stato messo in campo manu militari per nascondere ai cittadini il contenuto dei colloqui Napolitano-Mancino. In gergo sportivo si chiamerebbe ‘invasione di campo’. La richiesta di violare il segreto investigativo lascia sbigottiti. Come è significativo, forse ancor più, che i termini per il ricorso siano stati severamente accorciati, in modo da far pressioni sull’udienza preliminare del processo per la trattativa Stato-mafia, fissata per il prossimo 29 ottobre.

Detto questo, restano l’amarezza e la profonda preoccupazione per gli attacchi indecenti che un magistrato è costretto a subire se vuole fare seriamente il proprio lavoro. E non può essere una giustificazione il fatto che ‘tanto Ingroia è abituato’. Non ci si abitua mai ad un Paese che troppo spesso dimentica le vittime e, quando le ricorda, a fatica riesce a distinguerle dai carnefici. Accade quando si toccano i nervi scoperti, quando si scava troppo nel profondo e si rischia di rivelare verità inconfessabili.

I cittadini onesti, disorientati, si staranno chiedendo: e adesso che succede? Succede che Antonio Ingroia aspetterà la pronuncia del Gup Piergiorgio Morosini sulla Trattativa, prima di andare via da Palermo. La minaccia non gli impedirà di portare a termine il lavoro costruito insieme ai colleghi del pool. Succede che le indagini della procura non si fermeranno, perché c’è da ricostruire dal punto di vista giudiziario un pezzo della nostra storia recente, le cui ferite non sono mai state rimarginate. Succede che resteremo qui a sperare che nessun organo dello Stato voglia rendersi complice dell’emarginazione di Ingroia. Sappiamo bene, perché ne abbiamo avuto testimonianza, quanto questo possa essere rischioso.

Questo, oggi, davanti a una situazione che sembra la fotocopia delle persecuzioni riservate a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è in realtà un dovere civico, per ogni cittadino italiano che abbia a cuore la democrazia repubblicana e la carta costituzionale. Anche a costo di dover resistere alla iattanza delle vette più alte del Palazzo, rispetto al quale oggi forse sarebbero insufficienti, quasi buoniste, perfino le analisi di Pierpaolo Pasolini.

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