C’è tutta l’Italia nella mappa dei siti inquinati nazionali. Più di 5 milioni di persone corrono rischi per la salute in Val Basento, a Porto Torres, a Balangero, nel litorale vesuviano, intorno al bacino del fiume Sacco, intorno alla Fibronit di Bari, al bacino del fiume Chienti, a Biancavilla, Bolzano, Brescia Caffaro, Brindisi, Broni, Casale Monferrato, Cengio e Saliceto, Cerro al Lambro, Cogoleto-Stoppani, Crotone-Cassano-Cerchiara, Emarese, Falconara Marittima, Fidenza, Gela, laghi di Mantova e polo chimico, laguna di Grado e Marano, litorale Domizio Flegreo, Livorno, Manfredonia,Massa Carrara, Milazzo, Orbetello, Pieve Vergonte, Pioltello Rodano, Piombino, Pitelli, Priolo, Sassuolo-Scandiano, Serravalle Scrivia, Sesto San Giovanni, Taranto, Terni, Tito, Trento Nord, Trieste, Venezia Porto Marghera. Sarà un grande studio epidemiologico, chiamato S.E.N.T.I.E.R.I., a occuparsene. Gli epidemiologi italiani approfondiranno i perché dell’eccesso di morti nelle aree SIN. Ma già ora sappiamo che in quei pezzi d’Italia ci si ammala e si muore in rapporto all’ambiente contaminato che abbiamo creato per qualche posto di lavoro che andava e veniva, andava e ora non viene più.
C’è indistintamente il Nord, il Centro e il Sud. Da decenni, si celebrano processi e funerali e le condizioni locali sono in generale peggiorate.
Ma l’area più vasta e composita è in Sardegna dove la disoccupazione cresce con l’inquinamento in un rapporto che nessuno nega più. Non si viene licenziati perché le industrie, pentite, non vogliono più avvelenare. No. E’ che l’energia per inquinare costa troppo e per questo le industrie se ne vanno. Si sa.
Non tutto va male, però, se si è fatta strada tra la gente un’opinione che oggi, forse, è maggioritaria. Qualcuno si è chiesto se la politica non avrebbe dovuto assumersi l’incarico di accompagnare queste aree fuori dalla crisi anziché prolungarla con la pratica del fondo perduto. Se l’immenso fiume di denaro che è andato alle imprese non potesse in parte finire in mano ai lavoratori, aiutandoli a trasformare in meglio la loro vita. Se non si potesse assegnare in dote una quota dei 900 miliardi erogati in dieci anni – dall’85 al ’95 – per il carbone sardo. Idem per altre imprese come l’Alcoa, scappata dove l’energia costa meno.
Eppure esistono vie già tracciate. La Ruhr, oltre 5 milioni di abitanti, è una delle più grandi aree urbane d’Europa. Là carbone e acciaio hanno per secoli deciso la vita e la forma delle città. Poi la crisi negli anni Settanta. Poi l’idea della riconversione. La miniera di Zollverein, a Essen, simbolo del “riciclo” faticoso dell’intera comunità. Oggi, con un’operazione che è costata 3 miliardi e mezzo – una briciola rispetto ai fondi per tenere in vita le industrie sarde – la Ruhr non è più un’esplosiva carica di disoccupazione e dolore. Si vive bene, anche se non è un mondo perfetto, si fanno altri lavori e le fabbriche trasformate sono perfino una meta turistica.
Nessuno immagina – ricordate gli annunci per Bagnoli? – un’operazione del genere in Italia e tanto meno in Sardegna, dove prevale la falsa retorica del lavoro che schiaccia ogni ragionamento, dove vincono una politica e un sindacalismo che conservano se stessi e drammatizzano senza elaborare soluzioni. Però, almeno, ci si chiede finalmente se è possibile che la sofferenza del declino industriale possa essere alleviata con l’aiuto diretto, con la responsabilizzazione delle persone in difficoltà e un progetto di trasformazione profonda.