Vorrei smettere di parlare dell’Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca (Anvur) e scrivere di altri argomenti, magari più interessanti: ma non è proprio possibile: le vicende dell’Anvur non ci lasciano in pace un solo giorno. L’Agenzia, istituita col DPR 76 del 2010 sotto il Ministro dell’Università Maria Stella Gelmini avrebbe dovuto effettuare la Valutazione delle Università italiane (Vqr), ai fini della distribuzione della cosiddetta quota premiale del Fondo di Finanziamento Ordinario; successivamente è stata investita anche del compito di valutare i docenti e ricercatori italiani al fine di stilare le famose e contestate mediane, che avrebbero dovuto dividere il mondo dei concorrenti (e dei commissari) ai concorsi per la docenza in buoni (al di sopra della mediana di settore) e cattivi (al di sotto).
Le mediane, come ormai noto a tutti, erano un pasticcio e l’Anvur il 14 settembre ha creduto bene di pubblicare sul proprio sito una nota nella quale addossa le colpe al Miur(nel quale il prof. Profumo è succeduto all’On. Gelmini). Oggi, con un colpo di scena degno della migliore commedia dell’arte, è l’ex Ministro Gelmini a presentare alla Camera una mozione che chiede al governo un chiarimento legislativo nel quale si dica che le mediane dopotutto non contano: le commissioni di concorso possono usarle se credono; inoltre per il futuro chiede indicatori assoluti, e non relativi come le mediane. Aspettiamo con ansia una replica del Ministro Profumo.
Piuttosto che aggiungere commenti superflui, vorrei provare a spiegare come è stato possibile affondare nel ridicolo in questo modo: una storia che sembrava seria e finisce in farsa doveva avere qualche difetto fin dall’inizio. Non dirò una cosa nuova affermando che il Ministro Gelmini non sapeva granché dell’Università e doveva giustificare e camuffare i tagli dei finanziamenti voluti dal suo collega Tremonti. Quale strumento migliore della meritocrazia? Ti tolgo i finanziamenti e se protesti ti dico che è colpa tua, perché non sei bravo abbastanza da meritarli. Il guaio è che il ruolo del docente universitario, regolato dal Dpr 328 del 1980, assegna ai docenti universitari il solo obbligo della didattica e stabilisce il loro diritto a svolgere attività di ricerca e ad essere valutati anche in relazione a quest’ultima negli eventuali concorsi. Il legislatore non impone la ricerca: ricerca significa fare scoperte e queste non possono costituire un obbligo di legge; inoltre se la ricerca fosse un obbligo del docente lo stato dovrebbe poi finanziarla.
Un docente ha diritto di fare domande di finanziamento per svolgere attività di di ricerca; se accolte fa la ricerca altrimenti no. Il principale programma di finanziamento nazionale della ricerca che ha l’acronimo di Prin è sottofinanziato e l’accesso ai finanziamenti è strettamente meritocratico: su 100 progetti presentati, in media 20 vengono scartati come inadeguati e 80 vengono dichiarati ammissibili al finanziamento: di questi solo i 20 migliori vengono finanziati e gli scienziati che hanno presentato i rimanenti 60 ricevono una comunicazione che dice “complimenti, bellissimo progetto, però non ci sono i soldi”. Io personalmente appartengo stabilmente al 60%, non ho mai ottenuto un Prin e mi sono arrampicato sugli specchi per fare ricerca trovando altri finanziamenti (per i quali devo ringraziare il mio Ateneo, la Sapienza di Roma, e l’Istituto Pasteur – Fondazione Cenci Bolognetti). Mi sarebbe facilissimo dire che i Prin vanno ai raccomandati: ma non è vero, sono andati a scienziati di valore, che hanno pubblicato ottimi risultati. Posso solo dire che anch’io ho pubblicato ottimi risultati pur senza i Prin. La valutazione Anvur che ignora la didattica, unico dovere del docente, e valuta ricerche per le quali il docente non è stato finanziato, è evidentemente priva di senso: la ricerca dei docenti è valutata quando si decide se assegnare o no il finanziamento del Prin. Di qui il malcontento, le critiche e i ricorsi, ai quali si aggiungono gli errori marchiani commessi dall’Anvur. Povero Ministro Gelmini, a decidere su cose che non si capiscono non ci si azzecca mai.