Olga è il nome inventato di una giovane cronista che ha deciso di trasferirsi per rincorrere un contratto. A lavoro però, ha trovato il "porco", il direttore che la molesta più o meno velatamente. Il 24 luglio ha inaugurato una serie di post, ma di passare alle vie legali non se ne parla: "Come faccio a dimostrare la violenza psicologica?"
“Il porco ha occhi di mucca cerchiati di rosso, infossati in un viso con pappagorgia a quattro strati”. Comincia così il 24 luglio scorso Olga, giornalista precaria che per avere un contratto ha deciso di trasferirsi là dove un direttore le aveva offerto un lavoro vero, con tanto di contratto. Poi il capo si è rivelato un “porco”, uno che in cambio di una chance offre smancerie, richieste di compagnia e attenzioni. E Olga non ha più saputo che fare. Fino a fine luglio, quando ha aperto un blog dal titolo “Il Porco al Lavoro”: “Pensa di poterci comprare tutte – scrive Olga, – che ci offriremo a lui senza opporre resistenza. In cambio dei nostri corpi lui ci darà un posto sicuro, prestigio e visibilità”.
Una storia di compromessi e abusi subiti in silenzio che appartiene a Olga ma che potrebbe assomigliare ai tanti racconti di precari italiani, pronti ad accettare qualsiasi cosa in cambio di un futuro dignitoso. Perché se sai di meritarti un’opportunità, ti abitui a trattenere il fiato e a pensare che prima o poi le cose miglioreranno. È la storia di una violenza che Olga, lo pseudonimo con cui la giornalista ha deciso di farsi chiamare, definisce “mobbing sessuale”, ma che è difficile da dimostrare e che se toglie la dignità, ancora prima toglie l’identità impedendo di denunciare con nome e cognome, lasciando spazio solo all’anonimato. A garantire che esiste in carne ed ossa, Pietro De Viola, scrittore emergente e autore di “Alice senza niente”, romanzo sulla vita di una giovane precaria: “Ho conosciuto Olga per un’intervista e ho ascoltato la sua storia. Da quel momento sono un amico che cerca di sostenerla”.
Olga perché un blog e perché non una denuncia. In tanti hanno cominciato a seguirti e trai i sostegni, non mancano le critiche. Tu cosa rispondi?
Ho deciso di aprire il blog per condividere quest’esperienza che non è solo lavorativa ma è di coercizione. Io lo chiamo mobbing sessuale. Ma c’è un problema: gli inviti a cena, i complimenti, il ricatto sotteso, la violenza psicologica si possono denunciare ad un tribunale? Come faccio a dimostrarli? Il direttore che mi deve fare il contratto non è mai esplicito. La richiesta di scambio non è mai stata esplicitata: il tuo corpo in cambio di un contratto di lavoro. Non viene detto così. E io non sono ancora del tutto certa che sarà effettivamente così. Ho aperto il blog perché quando parlo di questa situazione con le persone che conosco, mi guardano come se fossi un’aliena. Perché ti sconvolgi? Mi chiedono. Sei una bella ragazza, è normale che queste cose accadano. E qualcuno aggiunge: sono delle opportunità; se poi non vuoi coglierle, è una scelta tua. Vorrei capire se questo è davvero il pensiero comune. Se sono io che sono “strana”.
Quando sognavi di diventare una giornalista ti saresti mai immaginata che avresti dovuto affrontare una situazione simile?
Ora capisco che ho vissuto la maggior parte della vita come una naif. Credevo che bastasse essere brava, mettercela tutta, lavorare sette giorni su sette, sapere le lingue per farcela non dico a diventare un’inviata ma almeno ad avere un lavoro decente. E invece non basta. Quel che conta sono le relazioni, le raccomandazioni, il pedigree. E poi non avrei mai pensato che l’essere donna avrebbe fatto la differenza. E invece eccome se la fa. In Italia è considerato normale che un capo ci provi. È considerata un’opportunità addirittura. Il sistema Berlusconi non riguarda soltanto lui e le Olgettine. Riguarda l’intero sistema del lavoro. E tra l’altro la dicotomia di giudizio è piuttosto sorprendente: se ci stai sei una prostituta. Se non ci stai sei una perdente. Sei espulsa dal sistema e questo significa che probabilmente non eri davvero così brava.
Perché semplicemente non rinunci e lasci il posto di lavoro?
Vado avanti perché ho fatto una fatica incredibile per arrivare fin qui. Perché i miei genitori hanno speso un sacco di soldi per farmi studiare. Soldi che gli sono costati una vita intera di lavoro e sacrifici. Se mollo che prospettive ho? Di diventare una moglie e una madre? Di farmi mantenere da un uomo? Di trovare un lavoro meno qualificato? Non ho paura di fare la cameriera – che peraltro ho fatto in passato. Ma perché devo farlo? Perché sono una donna e non voglio prostituirmi in cambio di un posto di lavoro? Spero di riuscire ad avere un contratto. Di fare il mio lavoro al meglio. Di non essere costretta a emigrare per potere avere una vita dignitosa. Che tra l’altro è quello che farò se la situazione degenererà.
È più difficile reagire a molestie che rimangono solo verbali?
Non credo che sia utile o sensato trovare una gerarchia nella violenza. Quel che so è che non ho gli strumenti per difendermi e per reagire. L’unica cosa che posso fare è scappare. Le regole di questo gioco sono impari. Lui è un uomo e ha il potere. Punto. E dato che in Italia – ma non solo – e soprattutto nel mondo del giornalismo, sono gli uomini che hanno il potere (basta vedere i dati relativi ai media: chi sono gli amministratori delegati, i direttori e i caporedattori) questo significa che quello che sta capitando a me succede a molte, moltissime donne. È il ricatto del lavoro ai tempi della generazione perduta, quando trent’anni vogliono dire occasioni perse e anni di studio che rischiano di essere mandati all’aria. Quando le storie di un esercito di precari rischiano di essere le une uguali alle altre, storie di anonimi che lottano per un futuro dignitoso.