Per il ciclo “Nuove Proposte” oggi andiamo a conoscere gli Hoosh, un duo friulano electro-alternative rock formato alla fine del 2008 dal chitarrista-tastierista e programmatore The Jab e dalla songwriter Eryx, cantante dotata di una voce davvero energica e grintosa nello stile. Il 2010 è l’anno in cui esce il loro album d’esordio autoprodotto intitolato “Faces” caratterizzato da un rock elettronico vigoroso che a tratti sconfina nell’hip hop, poi lo scorso maggio, hanno deciso di rimettere mano a quel lavoro dando alla luce “Hoosh”, che si discosta leggermente dal primo e che trova nuova ispirazione dal sound ruvido e convulso dell’hard punk proveniente da Detroit, quello che segnò profondamente la controcultura statunitense a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. La rabbia assieme all’amore sono il motore del disco: una rabbia che nasce dall’ingiustizia che soffoca, che si vede tutt’intorno e che è insopportabile. E questo disco rappresenta il loro modo di reagire. “Vorrei essere una sovversiva, vorrei spingere le masse a ribellarsi, a unirsi e diventare una forza invincibile. Basterebbe che tutti coloro che subiscono la mala politica e il mal governo si fermassero, ma per far ciò dovrebbero vincere la paura di perdere ciò che ancora credono di avere…”, confessa Erice Fulco in arte Eryx. Impossibile che non nascesse, dunque, un album di impatto con testi anti-establishment, tanto rabbiosi quanto espliciti. Un credo sintetizzato perfettamente dall’immagine di copertina, con una donna pronta a dar fuoco alle ceneri di un cannone. Abbiamo intervistato la frontwoman Eryx per conoscere gli Hoosh più a fondo.
Eryx mi parleresti di come nascono gli Hoosh?
Era il novembre del 2008 e stancamente io, Marco “The Jab” e un altro tizio portavamo in giro un trio di cover acustiche. La mia band si era sciolta da poco tempo e così chiesi a Marco: ‘Che ne pensi di suonare le mie canzoni? Magari le cambiamo un po’, gli arrangiamenti non mi convincono!’. Lui si mostrò subito disponibile e disse: ‘Magari la batteria la facciamo col pc, usiamo un po’ di synth…’. Il terzo tizio era perplesso e si tirò fuori quasi subito. Il primo demo era ridicolo, ma noi eravamo entusiasti! Nonostante i nostri gusti musicali erano talmente vasti, da subito ci accorgemmo che la nostra sintonia era perfetta, ci piacevano le stesse cose, in pratica parlavamo la stessa lingua. Dall’hip hop al punk, dai Radiohead ai Rage Against the Machine, da Patti Smith a Damien Rice. E poi Arctic Monkeys, Beck, P.J. Harvey, Ani Di Franco, Iggy Pop, Velvet Underground, Motörhead, Nirvana, Doors, Ac/Dc, Massive Attack, Björk, ma la lista è davvero lunghissima…
A cosa è dovuto il nome della band?
La scelta del nome Hoosh è stata di The Jab (il chitarrista). Stava leggendo “I versetti satanici” di Salman Rushdie quando e mi parlò di un piccolo demone di nome Hoosh che però non era cattivo. Ci piaceva anche il fatto che in Australia usassero la parola hoosh allo stesso modo in cui noi usiamo il termine sciò quando dobbiamo scacciare le galline! Inoltre ci suonava bene.
Dopo “Faces” del 2010, decidete di ri-incidere il disco d’esordio…
Il disco è nato togliendo tutto il superfluo da quello che è il nostro primo album, “Faces”. Non era male, ma c’era qualcosa che mancava e penso fosse il coraggio di arrivare all’osso, di spogliarci completamente. Mi piaceva ma non mi emozionava davvero, eravamo noi, ma dietro a un velo. Poi sono arrivati il Moog, la drum machine, il fuzz… ed è stato un po’ come aver visto la luce. In questo secondo album abbiamo rifatto tutto il primo (che abbiamo ritirato dal commercio) e abbiamo aggiunto altre quattro canzoni.
Mi descriveresti quali erano le vostre impressioni in studio mentre il disco stava per essere ultimato? E quali sono oggi se vi guardate indietro?
Mentre il primo disco l’abbiamo mixato e masterizzato in studio, con un certo tipo di atmosfera, questo no, l’abbiamo fatto tutto da soli, in cameretta con un Pc e poche, veramente poche, cose. Registrato, mixato e masterizzato da noi a modo nostro, con una mentalità davvero punk, ovvero senza regole e senza paura, senza preoccuparsi di nulla, tranne del fatto che doveva piacere a noi!
C’è un artista o un gruppo a cui vi siete ispirati?
Bè, a dir la verità non c’è un’artista a cui ispirarsi, c’è un mondo intero…
Perché avete scelto di comporre in inglese? Pensate di avere chance di potervi farvi apprezzare anche all’estero?
È stata una scelta naturale e coerente, non potrei cantare in nessun’altra lingua. Non è questione di essere esterofili o altro. Se amassi il suono di un’altra lingua per il mio cantato canterei anche in cinese o sanscrito. Quando mi dicono che dovrei cantare in italiano perché siamo in Italia mi metto a ridere… se è per quello non dovremmo neanche fare rock allora… mica è una musica che ha origini italiane!? Quando invece mi dicono che dovrei cantare in italiano perché il mercato… bè, insomma, non ce ne importa niente del mercato, del mainstream, dei talent e di tutte quelle sciocchezze commerciali. A noi importa solo fare ciò in cui crediamo e di farlo il meglio che è possiamo.
Come considerate il panorama musicale italiano?
Premesso che le nostre ispirazioni vengono da altre cose ci sono però alcune realtà italiane che guardiamo con rispetto: Verdena, Vinicio Capossela, i primi Marlene Kuntz, Jennifer Gentle, gli amici Al Castellana e 2Pigeons…
Le vostre ambizioni?
Suonare, suonare, suonare. Al momento ci piacerebbe avere un’agenzia che ci dia una mano a trovare date, a noi piacciono i piccoli club, i centri sociali, i posti dove la gente ama la musica e non la considera solo un sottofondo da aperitivo.