Vi interessa la mia testimonianza sul caso Sallusti? No? E io ve la dò lo stesso. Mercoledì il mio giornale, il Secolo xix, mi chiede un commento sul caso, prima che esca la sentenza. Sapete che non sono un giornalista, benché questo sia il mestiere che avrei voluto fare da giovane, e che insegno Diritto all’università: insomma, come dovrebbe fare anche un giornalista, e comunque un professore di Diritto, mi metto a cercare l’articolo del 2007 che ha innescato tutta la vicenda, ma lo trovo solo perché un altro blogger, Alessandro Robecchi, lo ha messo in rete. Domanda: gli altri lo hanno letto, non lo hanno letto o hanno preferito ignorarlo?
L’articolo era solo un commento a un altro articolo che riportava notizie palesemente false, anzi già smentite dalle agenzie di stampa; sospetto subito che a firmarlo con lo pseudonimo Dreyfus fosse stato l’agente Betulla, che non poteva scriverlo e meno che mai firmarlo perché radiato dall’albo dei giornalisti, come poi lui ha confessato dopo, dal suo scranno di parlamentare del Pdl. L’articolo non era solo inqualificabile ma anche palesemente diffamatorio; altro che libertà di opinione, chiunque poteva accorgersi della patacca anche senza controllare le fonti: di quando in qua, in Italia, un giudice può ordinare un aborto?
Nel frattempo esce la sentenza e il Secolo mi pubblica senza censure, come sempre, salvo le correzioni redazionali indispensabili a far apparire il tutto come un commento alla decisione: ma l’imbarazzo è dimostrato dal fatto che gli accosta un secondo commento, correttissimo ma apparentemente in senso opposto, di Giuliano Galletta. In rete comincia a girare la battuta finale del mio intervento – «Se mai Sallusti finisse in galera, giuro, gli porto le arance» – nata dalla convinzione che Sallusti non finirà mai in carcere, e che comunque i quattordici mesi di reclusione, pur inflitti a norma di legge in mancanza di uno straccio di attenuante, siano un’enormità, rispetto alla legislazione europea.
L’indomani, mentre torno a casa, mi chiama Radio 24 per organizzare addirittura un dibattito con Sallusti: a riprova del fatto che basta mettere in giro un’enormità – e la mia evidentemente lo era, per gli standard correnti – e il tuo quarto d’ora di celebrità non te lo nega nessuno. Poi, naturalmente, il dibattito salta: cosa ci guadagna, Sallusti, a discutere con un professore di diritto? Del resto, cosa ci guadagno io, a mettermi contro l’intera corporazione dei giornalisti? Però non cambio idea: tanto che ho spedito il mio articolo originario al sito di Micromega, che magari lo pubblica. L’unico dubbio è sulla faccenda delle arance. A questo punto, in effetti, a Sallusti converrebbe fare il martire sino in fondo: due o tre giorni di galera basterebbero ad assicurargli una presenza fissa in televisione per vent’anni. Che devo fare? Dirò al mio verduraio di tenersi pronto.