Appartengo alla schiera, che mi sembra sempre più nutrita, di coloro i quali non credono alla ripresa nel 2013 o più in generale a un’uscita dalla crisi nel breve periodo. Non sono un economista e nemmeno un menagramo, anche se di questi tempi non sempre è facile fare distinzioni tra le due categorie. Molto più semplicemente, sono in giro per l’Italia tutto l’anno e vivo a contatto quotidiano con tante realtà e persone diverse. E’ una delle opportunità che ti offre l’essere parte di una rete associativa ampia e diffusa, che oltretutto ha costruito nel corso dell’ultimo decennio forti diramazioni in giro per il mondo, dagli Stati Uniti ai paesi dell’Africa subsahariana.

Sono tra coloro i quali ritengono che da questa crisi non usciremo presto perché essa non è passeggera: si tratta invece di una profonda crisi del sistema che ha dominato per decenni l’economia, la cultura, la società, la politica, e che oggi ha esaurito la sua forza propulsiva perché i suoi fondamentali sono irrimediabilmente compromessi. A partire dall’idea che la crescita può essere infinita perché inesauribili sono le risorse a nostra disposizione. Solo un profondo cambiamento potrà farci uscire da questa crisi e farci conoscere una nuova stagione di benessere, anche se in forme diverse da quelle che ci siamo abituati a vivere negli ultimi decenni.

Sono anche un ottimista, convinto che sarà dura ma ce la faremo: e qui forse la mia compagnia si assottiglia leggermente, visto che tra quanti sostengono il cambiamento non sono pochi gli scettici, convinti che sia troppo difficile andare a incidere così in profondità sul sistema.

Il mio ottimismo ha le stesse origini delle mie convinzioni: la frequentazione quotidiana di genti e luoghi in ogni angolo del nostro paese e la condivisione di queste esperienze con una grande comunità di destino planetaria.

Il cibo è diventato per me una sorta di palla di vetro: dentro ci vedo i singoli pezzi di questa crisi e riesco anche a cogliere i segnali che indicano le possibili vie d’uscita. Comunque la vogliate prendere, la crisi letta attraverso il cibo diventa più facile da comprendere e magari anche da affrontare.

Che si affronti la questione sul piano ambientale, finanziario, economico, sociale, culturale, utilizzando il cibo come riscontro otteniamo sempre significative chiavi di lettura. Ad esempio, il sistema alimentare è oggi il principale responsabile dei cambiamenti climatici (nella sua filiera completa, dal campo alla tavola passando per la trasformazione e la distribuzione). Oppure ancora, il cibo è al centro di imponenti speculazioni finanziarie (dal prezzo dei cereali stabilito alla Borsa merci di Chicago, al land grabbing finanziato anche con i nostri risparmi).

Nel 2050 saremo forse 9 miliardi di abitanti e si prevede che saremo più carnivori di oggi, mentre gli agricoltori nel nord del mondo sono ormai prossimi all’estinzione (in Italia sono meno del 4% della popolazione attiva è impiegata nel settore primario) e anche nei paesi poveri prosegue inesorabile l’abbandono delle campagne.

Il quadro sembra apocalittico e ben più del futuro della Fiat dovrebbero preoccuparci il futuro del suolo agricolo e dell’acqua che nel nostro paese come in tutto il mondo diventeranno merce rara e preziosa. Dovremo presto fare i conti con una ormai compromessa sovranità alimentare e la sempre più marcata dipendenza dall’estero per le materie prime agricole diventerà qualcosa di ben più doloroso della già grave dipendenza che scontiamo oggi sul fronte energetico.

Eppure la luce in fondo al tunnel c’è e la possiamo vedere tutti. Mangiamo 3 volte al giorno e con le nostre scelte alimentari quotidiane possiamo favorire il cambiamento, a partire dalla tavola. Non stiamo parlando di cambiare il mondo in un giorno, per carità. E nemmeno di vivere al di sopra delle nostre possibilità economiche. Tutt’altro: si tratta di piccoli gesti quotidiani che possiamo adottare con un po’ di buona volontà e costanza.

Iniziamo dagli sprechi: ridurli significa risparmiare e diminuire l’impatto sull’ambiente. Riduciamo i nostri consumi di carne e sostituiamo le proteine con i tanti straordinari legumi che ancora si coltivano nel nostro paese. Consumiamo i prodotti nella loro stagione, sono solitamente più convenienti e più buoni e certamente è stata consumata meno energia per produrli e trasportarli. Comperiamo cibi freschi, evitiamo quelli con troppi imballaggi (che paghiamo due volte: all’atto dell’acquisto e con la tassa rifiuti!), privilegiamo le produzioni che hanno fatto poca strada dal campo alla nostra tavola. Quando possibile andiamo a fare acquisti direttamente dai produttori, magari in un mercato contadino: conoscere chi produce il nostro cibo è la migliore garanzia che abbiamo a disposizione. Ritagliamoci un po’ di tempo per cucinare: è un atto d’amore verso noi stessi e verso le persone che ci sono care. Ricordiamo sempre che il cibo che costa poco ha alle sue radici un’ingiustizia sociale o un danno ambientale. Oppure semplicemente non è buono. Non finanziamo chi ci vuole male!

P.S. Di questo è molto altro ancora di discute tutti i giorni nella rete di Slow Food, ma se volete regalarvi una full immersion, non mancate a fine ottobre l’appuntamento di Torino con il Salone Internazionale del Gusto e Terra Madre.

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