Umberto Bossi ha avuto tre vite. La prima è stata uno spasso, la seconda un trionfo, la terza una tragedia. È venuto su nel verde assoluto di Soiano, frazione di Cassano Magnago, provincia agricola di Varese, quando ancora c’erano i carri trainati dai buoi, l’acqua si prendeva dal pozzo e il granturco asciugava nelle aie al sole. Per quarant’anni ha impiegato il tempo sgocciolandolo via senza curarsene troppo. “Mai studiato in vita sua, mai lavorato un giorno” dicono di lui i paesani. Ma si sbagliano, quel disfare è stato il suo apprendistato. Compresa la mitica Scuola Radio Elettra di Torino – “Fu la prima tappa nella mia marcia di avvicinamento alla cultura” –, che in realtà fabbricava diplomi per corrispondenza e alibi per gli studenti più svogliati. E poi i lavori da due lire, il barista, il fattorino, l’installatore di antenne, l’impiegato all’Aci, il supplente, l’infermiere, il finto medico, persino il cantante. E nei mesi da disoccupato, battitore libero dei biliardi di zona, ad assorbire le chiacchiere da nulla degli amici e degli avventori al bancone, che poi sono il racconto quotidiano di quella terra, di quella gente – fatto con parole semplici: la famiglia, la casa, i figli, le donne, le tasse, i meridionali, il lavoro – che ha ascoltato nei bar e nelle bocciofile di Cassano, di Samarate, di Besnate, su fino a Sesto Calende, dove il cielo d’alta Lombardia entra nel Lago Maggiore e i piccoli sogni dei laghée diventano la malinconia del tempo immobile che fugge.
Da laggiù Umberto Bossi ha scalato Roma e poi l’Italia intera nominandosi guerriero del Nord, narratore di una rivoluzione sempre imminente, di una battaglia che non si vedeva ancora a occhio nudo ma che lui sentiva nel pugno e nel cuore. Una lotta che nei primissimi anni della sua marcia gli capitava di dettare ai fogli del ciclostile in forma di vaticinio, anzi di minaccia: “Si avvicina l’anno del Samurai, quando la Lega taglierà la gola al Sistema da orecchio a orecchio”. Così, straparlando da finto guerriero, finì per trovarsi un vero esercito di delusi disposto a seguirlo. E, seguendolo, a infiammarsi.
Da quella polvere di parole – “Basta! È il momento di liberare la Lombardia dalla vorace e soffocante egemonia del governo centra-lista di Roma ladrona!” – Bossi ha inventato una nuova lingua politica fatta di punti esclamativi, invettive, insulti, semplificazioni di massima efficacia compresa la pernacchia, il gestaccio, la chiamata alle armi per la “lotta di liberazione da Roma!”. Ha inventato uno stile, battezzato barbarico, che esibiva le giacche stazzonate e la canottiera come simbolo di purezza popolana, e il dito medio come scettro del nuovo Regno che avrebbe liquidato il vecchio.
Ha inventato un territorio da difendere e uno da sconfiggere: il primo immaginario, la Padania, il secondo tanto vero da coincidere con lo Stato unitario. Si è attribuito la protezione di un dio che scorre nel Grande Fiume e nell’Ampolla. La titolarità di un colore sacro, il verde della Pianura. Un inno con cui commuoversi, un destino da condividere. E anche se il destino era fatto con gli elastici del rancore sociale, lo spago della rivolta antitasse e la vernice spray con cui di notte, per anni, ha disegnato sui cavalcavia della pedemontana le lettere immense e bianche di lega nord, a certificarne un’esistenza almeno visiva, quattro milioni di italiani adulti gli hanno creduto.
Perché comunque quel destino immaginario e immaginifico era meglio del nulla che passava la vecchia Italia dei partiti e dei Palazzi, dell’assistenzialismo meridionalista e del pubblico impiego fannullone. Perché sollecitava un ideale puro, la “Libertà del Popolo!”, che sembrava più attraente delle vuote promesse della politica. Perché i partiti sguazzavano negli scandali, mentre la gente annegava in un mare di tasse pagate senza vantaggio. Perché quel destino era una identità. Era l’idem sentire che tornava a declinarsi coerente ai vincoli del sangue e del suolo, negli stessi anni in cui l’economia globale, governata dai misteriosi poteri forti che sovrastano persino gli Stati centralisti, quei vincoli iniziava a triturarli, mischiando geografia e culture, cancellando orizzonti antichi, abitudini, sicurezze, tradizioni, fino a trasformare la lingua e il territorio. La prima minacciata dall’arrivo dei forestieri, “prima i terroni, poi gli africani”, che la corrompevano fino a renderla irriconoscibile. Il secondo alterato dalle speculazioni, dalla crescita sregolata, oppure malamente abbandonato, e comunque violentato fino a sfigurarlo, a renderlo spesso ostile, se non addirittura estraneo. Al punto da innescare quella furente malinconia che genera lo spaesamento, quella paura orizzontale, quotidiana, di chi non si sente più, come ai bei tempi andati, “padrone a casa propria”. Per dissigillare quei tempi andati Bossi ha promesso la chiave. Affidandola alle avanguardie del risarcimento, i militanti della Lega, detta anche la Potentissima, l’Imbattibile, la Padrona del Nord.
Il territorio e la lingua sarebbero stati restituiti ai legittimi proprietari: il popolo. E anche l’anima, anche lo spirito: un immenso conguaglio politico che aveva bisogno di una sola parola magica per diventare vero, bastava pronunciarla e pronunciarla bene, scandendo le sillabe come nei mantra: “Fe-de-ra-li-smo!”. Elezione dopo elezione, dai 186.255 voti raccolti nel 1987, passando ai 3,4 milioni del 1992, fino ai 4 milioni e rotti del 1996, Bossi ha trasformato quel primo movimento di eccentrici, fabbricato con gli scampoli del vecchio autonomismo regionale, nel più dinamico tra i nuovi partiti della Seconda repubblica e il quarto per consistenza numerica. Capace di diventare la compatta colonna della destra di governo, la dura guarnigione della protesta al Sistema e infine il caposaldo del berlusconismo trionfante – anni 2001-2006 –, che è stato insieme l’apogeo della sua storia e l’inizio del suo declino.
di Pino Corrias, Renato Pezzini e Marco Travaglio
Il Fatto Quotidiano, 28 settembre 2012