Spacciatori di derivati, di prodotti finanziari ad alto rischio venduti come toccasana per i bilanci di aziende già in difficoltà e infine rivelatisi vere e proprie trappole per gli imprenditori coinvolti. E’ questa l’accusa che ha portato alla sbarra in veste di imputati decine di dirigenti Unicredit da un capo all’altro della Penisola. Da Bari ad Acqui Terme in Piemonte e ora anche a Roma con la vicenda Balloon, la grande banca ora guidata da Federico Ghizzoni è costretta a a fare i conti (in tribunale) con l’eredità della passata gestione, quella di Alessandro Profumo, l’ex amministratore delegato da maggio al vertice del Monte dei Paschi di Siena. Non bastassero le perdite miliardarie in bilancio e i guai per le presunte irregolarità fiscali sotto inchiesta penale a Milano, adesso tornano attualità le storie di imprenditori spennati (questa è l’accusa) dai banchieri con la divisa di Unicredit.
Proprio ieri, a Bari, nell’udienza del processo per il caso Divania, forse il più importante per le somme in gioco, il giudice ha ammesso come parte civile l’associazione per la difesa dei consumatori Adusbef. Estorsione e truffa, questi i reati ipotizzati dalla procura pugliese nei confronti di una ventina di banchieri e bancari: semplici funzionari locali, ma anche un paio di top manager al vertice di Unicredit banca mobiliare, il braccio operativo del gruppo creditizio per la finanza aziendale.
Divania non c’è più. E’ fallita nel giugno dell’anno scorso travolta dai debiti e dalle perdite dopo aver licenziato gli oltre 400 dipendenti di quella che era una delle più importanti aziende del cosiddetto distretto del mobile imbottito pugliese. Un distretto da tempo in grave crisi per effetto soprattutto della concorrenza asiatica. I problemi sul fronte commerciale però non bastano da soli a spiegare il crac di Divania. La pensa così il proprietario Francesco Saverio Parisi che ha denunciato le manovre a suo dire truffaldine di Unicredit. In sostanza, i banchieri lo avrebbero indotto a comprare prodotti finanziari ad alto rischio senza informarlo in modo completo sulle possibili perdite, legate a questi titoli in gergo definiti derivati.
E così è andata a finire che strumenti venduti come fossero una sorta di paracadute per i rischi, ad esempio, di repentine variazioni dei tassi d’interessi, hanno provocato perdite che hanno aggravato la già precaria situazione aziendale. Parisi ha chiesto un risarcimento di oltre 200 milioni, ma nei mesi scorsi una consulenza tecnica ha quantificato in una somma compresa tra 15 e 20 milioni le perdite legate ai derivati.
Le udienze civili sono in calendario nei prossimi mesi, ma intanto è arrivato in aula anche il processo penale. Oltre alla truffa, cioè la vendita di prodotti speculativi ad alto rischio camuffati da strumenti di copertura, la procura barese ha contestato anche l’estorsione perchè nel 2005 Unicredit avrebbe di fatto costretto l’imprenditore, già con l’acqua alla gola per via delle perdite, a stipulare un nuovo accordo con cui si impegnava a versare 4,5 milioni alla banca, a saldo delle perdite causate dai derivati speculativi.
Unicredit ha sempre respinto tutte le accuse. Nessun comportamento scorretto e, ovviamente, nessuna truffa. Questa la posizione dell’istituto di credito che non ha mancato di sottolineare come Divania fosse già in grave difficoltà a prescindere dalle operazioni speculative. Come dire che l’imprenditore avrebbe cercato di scaricare sulla banca la responsabilità di una crisi che aveva poco a che fare con i derivati.
Una storia molto simile è andata in scena in un paese della provincia di Alessandria, Bistagno. L’imprenditrice Piera Levo, titolare della Nuova BB (materiale idraulico) si è trovata a pagare decine di migliaia di euro per coprire le perdite legate a prodotti di copertura sul rischio tassi venduti da Unicredit. E per far fronte a questi impegni è stata costretta a chiedere prestiti a tassi molto elevati, fino al 29 per cento secondo la denuncia, alla stessa banca. Somme non elevatissime, decine di migliaia di euro, sufficenti però a mettere in crisi una piccola azienda come la Nuova BB. Per uscire dalla trappola alla fine l’imprenditrice piemontese si è decisa a far causa a Unicredit, denunciando anche l’istituto alla procura della repubblica di Acqui Terme.
Messo alle strette, il gruppo bancario ha preferito chiudere la vicenda con una transazione, accettata dalla signora Levo, che ha anche rimesso lq querela. L’inchiesta penale però è proseguita. L’accusa nei confronti di due funzionari di Unicredit è quella di usura.