Nel 2010, SIAE ha speso oltre duecento milioni di euro per incassarne appena più di seicento. Un terzo dei compensi raccolti a titolo di diritti d’autore e destinati agli aventi diritto, speso – ma sarebbe più giusto dire, in buona parte, sprecato o sperperato – in abnormi spese di gestione. Un rapporto tra raccolta e costi che rende la Società italiana autori ed editori la peggiore tra le società di gestione ed intermediazione dei diritti operanti in Europa.
Basti pensare che in Inghilterra la MCPS-PRS spende settanta milioni di euro (che sono comunque tanti) per incassare oltre settecento milioni di euro con un rapporto costi/incassi pari ad un decimo.
Peraltro, anche senza guardare alle “eccellenze” anglosassoni, nella vicina Francia, la SACEM – che ha più o meno lo stesso numero di dipendenti della SIAE – spende dieci milioni di euro in meno della SIAE e ne incassa duecento in più.
Sprechi e sperperi che oggi appaiono non ulteriormente tollerabili anche alla Federazione degli autori, presieduta da Gino Paoli che, infatti, in un’accorata lettera aperta pubblicata e diffusa nelle scorse ore ha chiesto a gran voce che l’attuale gestione commissariale – evidentemente, in tutt’uno, con le competenti Autorità di vigilanza – si affretti a completare la radicale trasformazione della SIAE, varando, tra l’altro, il nuovo e controverso statuto che pare essere stato inghiottito nel porto delle nebbie del Palazzo di Viale della letteratura o smarrito nei corridoi del Ministero dei beni e delle attività culturali ove, certamente, è stato, ormai da tempo, inviato in bozza.
Preoccupazioni comprensibili e, naturalmente, rispettabili quelle di Gino Paoli e colleghi anche se, numeri alla mano – e disastri ed inefficienze davanti – è difficile credere che, sino a quando la SIAE sarà lasciata operare in una situazione di para-monopolio – peraltro, ormai, ingiustificabile sotto il profilo del diritto Ue – e non si sarà sciolta l’ambiguità della natura bifronte pubblica-privata, qualcosa possa davvero cambiare.
D’altra parte nel mondo, l’esercizio della gestione ed intermediazione dei diritti d’autore resta, ormai, un appannaggio pressoché esclusivo della nostra SIAE.
Basta scorrere l’elenco della 230 cugine della SIAE, iscritte alla CISAC ed operanti in 121 diversi Paesi al mondo per averne conferma: in Austria operano cinque diverse società, in Belgio tre come in Bulgaria, nella Repubblica Ceca, in Danimarca, in Grecia, in Ungheria ed in Irlanda, nella vicina Francia addirittura nove, quattro, invece, sono le società di gestione ed intermediazione che operano in Finlandia, in Slovacchia e in Svizzera per non parlare delle sei società che operano in Inghilterra o delle cinque Olandesi.
Ovunque, nel mondo, il mercato dell’intermediazione dei diritti è più aperto, libero e competitivo che in Italia.
Senza guardare alle dieci società che si dividono il mercato statunitense o alle nove che si fanno concorrenza in Canada, anche in Paesi “meno ricchi” dal punto di vista dei diritti d’autore è un pullulare di società di intermediazione in concorrenza tra loro: sono undici in Brasile, sei in Australia, quattro in Messico e in Argentina, tre in Giappone, in Corea, in Sud Africa e persino in Cile.
E non c’è traccia di un monopolio come quello italiano neppure a Cuba, in Nigeria, nella minuscola Trindidad, in Nepal, Uruguay, Venezuela e Perù.
Ovunque, anche nel più piccolo dei mercati, ci sono almeno due società di gestione ed intermediazione dei diritti d’autore che si fanno sana concorrenza tra loro.
E’ difficile per non dire impossibile comprendere quale sia il presupposto economico e politico per il quale, nel nostro Paese, nonostante gli inequivoci segnali dell’inefficienza della SIAE ed i chiari sintomi dell’ormai imminente suo rovinoso sfacelo, si tergiversi ancora nel far saltare gli ultimi baluardi di un monopolio anacronistico, inutile e causa di molti dei mali della Società Autori ed Editori.
Cosa aspetta il Governo dei Maestri delle liberalizzazioni a liberalizzare un mercato che è ingessato, inefficiente ed al tracollo come in nessun altro Paese al mondo e che genera costi abnormi per il sistema cultura e garantisce poco o nulla ai titolari dei diritti?
Sono ipocrisie come questa a minare, ogni giorno di più, il rapporto tra società reale e Palazzo ed a dare la sensazione che dietro a tante parole e buone intenzioni non vi siano né le declamate capacità e competenze né la reale volontà di accompagnare il Paese fuori dalla crisi a costo di scontrarsi con i c.d. poteri forti che, poi, molto spesso, non sono niente di più che squallidi ed incancreniti corpuscoli clientelari.