«Ho ereditato il mio negozio da mio padre. Ho lavorato qui per più di trent’anni. Non avrei mai potuto credere che una cosa del genere potesse accadere». Mohammed è un commerciante di uno dei 500 negozi completamente distrutti dalle fiamme dolose e «dolorose» che lo scorso venerdì hanno incenerito parte del suq di Aleppo. La città, che vanta oltre 7.000 anni di storia, rappresentò per secoli uno dei più importanti snodi commerciali sulla via della Seta e il suo mercato coperto in elegante pietra color ocra, del 1300, ne era il massimo emblema. Come gli altri proprietari Mohammed aspetta con ansia di poter entrare nel sua bottega di stoffe per vedere cosa è rimasto degli ultimi 90 anni della sua storia di famiglia. «Ma l’esercito non ci lascia passare – racconta al telefono con voce rassegnata – i soldati sono piazzati all’ingresso delle principali strade del mercato».
Dentro il dedalo di vie strettissime (dove non sono potuti intervenire i pompieri), nonostante l’odore acre del fumo proseguono i combattimenti, tra soldati regolari e uomini dell’esercito libero. La guerra non concede nemmeno un giorno di tregua per salutare la grave scomparsa del più significativo luogo dell’identità collettiva aleppina. Un luogo dove a prevalere era sì la borghesia mercantile sunnita, ma senza nulla togliere alle piccole e importanti comunità armene ortodosse e cristiane di diverse confessioni.
«Io non ho bisogno di andare a vedere cosa è successo alla mia bottega – racconta invece Suleiman, venditore di mobili intarsiati – l’ho vista ardere in televisione al telegiornale. Ci ho messo diverse ore per riprendermi dallo choc, ma poi ho capito che sono un uomo fortunato. I mobili, i negozi, sono solo cose, in questa guerra sono morte migliaia di persone, vite che non potranno mai essere restituite mentre i nostri immobili si potranno ricostruire». In verità la restaurazione non è cosa semplice e anche la valutazione dei danni potrà avvenire solo quando cesseranno gli scontri. Il suq è considerato patrimonio dell’Unesco dal 1986, così come il resto della cittadella di Aleppo.
La portavoce della prestigiosa agenzia delle Nazioni Unite, Irna Bokova, aveva lanciato già il 25 agosto scorso un appello (invano) alle forze belligeranti per risparmiare l’antico centro dai combattimenti. «Invieremo una missione di periti non appena possibile», ha dichiarato oggi laconica. Mentre è ancora oscura l’origine dell’incendio divampato con estrema facilità, vista l’abbondanza di mobili in legno e di stoffe. La cospicua presenza di moschee dentro il centro la città vecchia, ad ogni modo, induce i sunniti ad escludere che a generare il rogo possano essere stati gli uomini dell’Esercito libero siriano (Els), il cui cervello operativo, ha proprio recentemente abbandonato la postazione turca (di Hatay) per raggiungere Aleppo.
Anche se il problema, posto da alcuni membri dell’opposizione siriana è un altro: perché quelle brigate si trovavano a combattere proprio là? Domanda legittima dietro cui si cela però la profonda divisione all’interno establishment militare e politico degli oppositori ad Assad. «Non siamo né a favore né contro Bashar», dice Mohammed parlando a nome della sua categoria «ma non avremmo mai pensato che potesse permettere che una cosa del genere avvenisse. Spero che nel mio negozio si sia salvato qualcosa, altrimenti – conclude – verrò privato anche dei miei ricordi, e questa è la cosa che mi fa più male».
di Susan Dabbous