Giudicare è una delle attività più comuni tra le persone, veloce, gratuita, ci fa spesso sentire migliori di coloro sui quali esprimiamo le nostre opinioni, sembra essere automatica e non impegna necessariamente le nostre migliori attività mentali.
Nel mio lavoro di psicoterapeuta, so bene quanto possa essere nocivo e limitante imbattersi in un giudizio e quanto le persone ne possano poi soffrire e so bene quanto questo accada spesso. Non è necessario lavorare in campo psicologico per sapere quanto i pareri altrui ci influenzino, basta vivere. Col nostro giudizio cerchiamo di allontanarci il più possibile dalle azioni di coloro che giudichiamo e in fondo vogliamo sottintendere che noi siamo “diversi”. Non di rado abbiamo un disperato bisogno di porci su un altro piano che ci consenta di guardare l’altro dall’alto in basso, abbiamo paura di scorgere qualcosa di noi dove non vorremmo che ci fosse.
Quando si parla di un uomo violento, di un uomo che picchia la propria compagna e abusa sessualmente della propria figlia adolescente giudicare diventa, per la maggior parte delle persone, un dovere dal quale non è possibile sottrarsi.
Nel romanzo “Dalla pelle al cielo” di Ilaria Drago il giudizio è stato bandito perché considerato inutile ed il suo posto è stato preso da una comprensione implicita che ci guida in territori inesplorati dove la critica non può arrivare. E’ facile etichettare un uomo e dargli del mostro identificandolo con il suo comportamento e non riuscendo a capire che sono due cose ben distinte. Siamo anche noi le sbarre che non permettono a qualcuno di cambiare.
Il romanzo è il diario di un’adolescente che scrive su queste pagine dai 12 ai 14 anni, un amico al quale confidare due anni di violenze ed abusi sessuali perpetrati dal padre. Parlare di un argomento come la violenza sessuale è difficile, ma farlo con la poesia che Ilaria Drago mette nella immaginaria penna di questa ragazza è arte.
L’autrice entra perfettamente nel mondo emotivo dei vari personaggi e niente sembra essere fuori posto per chi conosce le dinamiche che vengono spesso a crearsi in situazioni di maltrattamento. C’è una madre ignara dell’abuso sessuale perpetrato alla figlia e che riceve la sua parte di violenza fisica e psicologica, una amica di famiglia che fa le veci di un angelo in mezzo a tutto il tormento, il primo ragazzo con il quale la protagonista instaura un tenero e forte legame affettivo, una nonna iperprotettiva che minimizza i comportamenti del figlio e poi c’è proprio lui quello che tutti considererebbero il mostro, ma che Ilaria non dipinge come tale, pur mettendo a nudo la sua violenza. Il comportamento del padre è narrato in tutta la sua crudezza, ciononostante Ilaria capisce quanto poco serva giudicarlo e con poche pennellate fa intravedere il suo passato, non privo di esperienze altrettanto tragiche. Ognuno è figlio della propria storia e non siamo noi a scegliere i nostri genitori.
Nel non giudicare, ma nel comprendere investo tutto il mio lavoro con gli uomini autori di comportamenti violenti. So bene che giudicare non mi porterà da nessuna parte, mentre comprendere potrà dare il via a dei cambiamenti significativi che permetteranno di interrompere la violenza.
“Dalla pelle al cielo” è un libro sulla sofferenza e sulla capacità di farvi fronte. La protagonista vive tra le macerie prodotte dai comportamenti dei suoi genitori, ma è in grado di cercare una ragione là dove molti non la cercherebbero, non vuole arrendersi all’odio, vuole vivere e vuole vivere nonostante tutto.
Dal finale del diario:
…perché io non mi arrendo al fatto che non vi sia una ragione per tutta questa furia e vendetta e rancore. Non mi arrendo al fatto che non vi sia una ragione che assolva mio padre. Una ragione che assolva mia madre. Una ragione che assolva me. Ci deve essere! Perché questo odio non lo voglio. Perché se sopravvivo, non voglio diventare come questa montagna di ferite. Perché c’è e ci deve essere il modo che questa vita sia un paradiso. Che non sia solo un groviglio d’esistenze pronte alla carneficina. Perché non accetto più che si deleghi ad altri la propria salvezza, la propria felicità. (grassetto mio)
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di Mario De Maglie