Secondo il rapporto europeo "Fleeing Homophobia" solo 2mila domande vengono accolte. E le modalità per accertare la necessità di essere protetti, non sono sempre rispettose. Moltissime sono le corti che invitano il richiedente a nascondere il proprio orientamento sessuale
Ogni anno 10mila persone Lgbtqi, ovvero lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer e intersessuali, chiedono asilo ai paesi dell’Unione europea. Fuggono da persecuzioni in 104 Paesi: dal Cile all’Uganda, dalla Russia a Israele, passando per Paesi europei come Croazia e Romania, solo per citarne alcuni.
Nonostante l’orientamento sessuale sia riconosciuto come motivo di persecuzione dalla direttiva “Qualifiche 10” dell’Ue, sono ancora tante le differenze tra i Paesi che esaminano le richieste. E ancora troppi risultano i respinti: 8mila all’anno, dei quali, una volta rimpatriati, non si sa più niente. A dare le cifre di questa diaspora sommersa è il rapporto europeo “Fleeing Homophobia“, cofinanziato dal Fondo europeo per i rifugiati. Ciò che ne emerge è che la discriminazione subita in patria si ripete in Europa, nelle modalità disumane con cui si esaminano queste richieste di asilo.
La segregazione sessuale è una realtà in gran parte del mondo. In 76 Paesi gli atti omosessuali consensuali tra persone maggiorenni sono vietati per legge. Dalla “gomma iraniana” (terribile colla con cui viene chiuso l’ano e che porta a una morte agonizzante) all’isolamento civile, i metodi persecutori arrivano fino alla pena di morte: accade in Iran, Arabia Saudita, Yemen, Mauritania, Sudan e Somalia, come ci spiega Roberto Malini, copresidente del Gruppo EveryOne, che da anni si occupa di dare aiuto operativo a questi perseguitati. “In Iran – spiega Malini – dal 1979, anno della rivoluzione a oggi, sono state eseguite circa 12mila esecuzioni di persone gay, 4mila per “lavat” (pratica di atti omosessuali passivi) e circa 8mila quali “nemici di Dio”. Questo significa, racconta ancora il fondatore che “una persona omosessuale al giorno è finita sul patibolo”. Nei Paesi in cui prevale l’ortodossia islamica, se non vi è la pena capitale, si va da pesanti pene detentive all’ergastolo. “Torture e sevizie sono considerate strumenti di rieducazione – conclude Malini – Dove esiste una tolleranza di facciata, come in Turchia o Egitto, le leggi religiose colpiscono i gay per azioni contro la pubblica moralità”.
Eppure, come evidenzia “Fleeing Homophobia”, sono tantissime le corti europee che rifiutano l’asilo invitando i perseguitati a nascondersi: è il cosiddetto “principio di discrezione”. In Svizzera il Tribunale federale amministrativo ha recentemente rifiutato la richiesta di un iraniano affermando che le autorità iraniane tollerano l’omosessualità “quando non viene pubblicamente esibita in maniere che possono essere considerate offensive”.
Dai richiedenti si pretende che non siano stati sposati né abbiano figli: risulterebbero poco credibili come omosessuali; devono invece provare un “insopprimibile e irresistibile” desiderio di fare sesso con una persona dello stesso sesso. E affrontare inutili e umilianti esami medici e psichiatrici, nonostante l’omosessualità sia stata eliminata dall’elenco delle malattie dell’Organizzazione mondiale della Sanità nel 1990 e quindi non sta certo a medici e psichiatri stabilire se una persona è o meno Lgbtqi.
Tristemente noto e da non molto vietato, almeno formalmente, il “test fallometrico”, che indaga reazioni di fronte a video porno. In Belgio è possibile porre domande come: “Quand’è stata la prima volta che ha compiuto una fellatio e che ha avuto un coito?”. In Bulgaria si chiede il numero dei partner e se si è attivi o passivi; in Olanda un iraniano richiedente asilo non è risultato attendibile perché, quando gli è stato chiesto di descrivere il rapporto omosessuale in cui era stato sorpreso in patria, ha esitato nel descrivere la posizione.