Partendo dagli esordi quand’era solo un giovane smilzo ed emarginato, “una specie di idiota, un topo in gabbia iperattivo e sottosviluppato… ed ero frustrato. In qualche modo dovevo buttare fuori ciò che avevo dentro”, fino a entrare 17enne nella più grande band hardcore d’America, gli Scream da Bayle’s Crossroads, Virginia, con la quale visse momenti indescrivibili, come lui ricorda: “Attraversare il paese in un furgone con altri cinque ragazzi, fermandoci a suonare in ogni città, poi dormire sul pavimento di casa di qualcuno e ancora ammirare il sole che sorgeva dal deserto mentre guidavo. Avevo trovato la mia dimensione”.
Agli inizi degli anni Ottanta quella americana è una gioventù bruciata, ragazzi che erano passati dall’infanzia all’adolescenza mentre l’attore Ronald Reagan era governatore della California. L’autore descrive in maniera impeccabile come, psicologicamente, la convinzione inculcata in quei giovani, che la loro fosse la generazione d’oro, che fossero loro gli eredi legittimi del mitico sogno americano, abbia influito su questi ragazzi inermi e indifesi. E come, da questo malessere interiore, successivamente, sia scaturito quel genere noto come “Grunge”, presentato velleitariamente dai media come rivoluzionario, prendendo in prestito la citazione del filosofo liberale spagnolo José Ortega y Gasset “La rivoluzione non consiste nella rivolta contro un ordine precostituito ma nella creazione di un ordine del tutto diverso da quello tradizionale” e cavalcato con maestria anche dai Nirvana, considerati a unanimità fra i pionieri.
Seattle viene salutata come la nuova Liverpool, con branchi di talent scout inviati dalle major per accaparrarsi gli elementi migliori. Ma non tutto oro è quel che luccica: Brannigan fa luce sulla miriade di zone d’ombra che la storia grungiana presenta ripercorrendone le tappe, tracciando gli identikit dei protagonisti e raccontando la genesi delle varie band, ma anche aneddoti molto curiosi e interessanti e ciò che sta dietro gli album e la loro lavorazione. Oltre, naturalmente, ai fatti che hanno portato alla costruzione dei vari miti, tra cui quello di Kurt Cobain, che “aveva riscritto, distorto, rielaborato l’intera storia della sua vita numerose volte, mescolando realtà e finzione a tal punto che non era più possibile distinguerle l’una dall’altra”.
Una storia, quella sul cantante dei Nirvana, ridotta sempre ai minimi termini e che va un po’ stretta a quelli che, come Dave Grohl, lo conoscevano da vicino, perché Kurt aveva una personalità complessa: “Magari sembrava un punk disadattato e irriverente, ma era anche uno che amava gli Abba, cazzo se li amava, ci siamo ritrovati a ballare gli Abba centinaia di volte…”. E che gli diceva “Accidenti, non sai quanto vorrei poter indossare una tuta da ginnastica, roba di questo genere…”. Caustico anche il suo parere sui Nirvana: “Eravamo una band disfunzionale, composta da soggetti molto passivi” “Ignoravamo la maggior parte dei problemi, o al massimo li risolvevamo senza parlarne. Come band non comunicavamo molto”. Grohl, inoltre, confessa la sua antipatia nei confronti di Courtney Love e poi i litigi che portarono la band sull’orlo della separazione poco dopo aver raggiunto la celebrità e il successo. Fino ad arrivare al dramma del suicidio di Cobain e la conseguente urgenza di ripartire, ancora una volta, con i suoi Foo Fighters. Perché “avevo ancora tanto da dire. Cazzo se ho ancora tanto da dire”. E poi con le altre band come Queens of the Stone Age, Prodigy, Them Crooked Vultures, sempre con grande entusiasmo. Nel libro non c’è scritto, ma anche l’icona della musica italiana, Mina, ha espresso il desiderio di voler duettare con lui. Una biografia imperdibile per gli amanti del Rock e consigliato, in particolare, a chi ha sempre considerato il fenomeno Grunge “romanticamente” e fatto da artisti naïf . Vive le Rock!