La formula ha più di cinquant’anni – la prima volta fu nel 1960 con il duello stravinto per telegenia da Jfk su Nixon – e non è mai cambiato veramente. I contendenti hanno tempi e modi (in piedi davanti alla tribunetta, seduti di fronte a un tavolo) stabiliti dalla regia con precisione assoluta. Minutaggio calcolato al secondo, divieto tassativo di interrompere e parlare sopra la voce dell’altro, cambiare argomento, sforare i tempi. Tutto è deciso in anticipo, comunicato ai “concorrenti” che si devono allenare (con sparring partner di qualità) a risposte brevi ed esaurienti. I dibattiti sono guidati da anchormen (quest’anno anche un’anchor woman) di lunga esperienza e provata indipendenza, che non escono mai dal dettato del format e costringono i candidati a rimanere sul tracciato, evidenziando eventuali digressioni.
Perché lo scopo è di permettere allo spettatore di seguire con precisione l’esposizione dei candidati e permettergli di giudicare le proposte, tenendo il carattere del candidato in secondo piano attraverso la griglia rigida del format.
Attorno a questo momento la campagna elettorale è tutto uno spender per spot, anche feroci, colpi mediatici più o meno bassi, serate per raccolta fondi faraonici (in questa elezione i candidati spenderanno in tutto qualcosa come 7 miliardi di dollari): ma quando entrano in tv i due (o più) sfidanti si srotolano le maniche della camicia, si aggiustano la cravatta (il cui colore può essere un dettaglio importante) regolano il portamento e le espressioni della voce e del volto e trasmettono la rappresentazione di una realtà che vuol essere seria e credibile. E la tv diventa uno strumento con il quale cercare di capire e giudicare.
Proprio come in Italia.