“I veri capitani possono morire o anche scegliere di morire, ma dimenticarli è impossibile” (Gianni Mura)
Sceso dalla palazzina della Fandango, prima di rimettermi in vespa per le strade di una città che sento sempre più lontana, apro Il manuale del calcio. Il calcio è semplicità, il libro che mi hanno appena regalato. Sento salire dentro di me un’emozione strana e gli occhi mi si riempiono di lacrime. Per me che ho amato e continuo ad amare le partite di calcio ed alcuni calciatori, molto più delle squadre e dei campionati, Agostino Di Bartolomei è stato da sempre una delle massime espressioni di calcio da amare. Non si poteva non amare lo sguardo serio e in fondo triste; il suo silenzio dei timidi, o meglio l’eloquio essenziale e profondo; il passo lento; il lancio illuminante; la botta da fuori area; l’interpretazione più nobile e autorevole del ruolo di capitano. Non si poteva non amare l’essere una persona seria in un mondo che non era ancora degenerato, ma che in tal senso prometteva già bene. Ecco, avere tra le mani un libro nuovo, forse ancora non uscito in libreria, di un uomo che diciotto anni fa ha deciso di interrompere la propria vita, mi emoziona. Ma forse le lacrime mi salgono agli occhi se penso che questo libro è anche il frutto di un rapporto interrotto, ma ancora vivo fino all’ultimo respiro, tra un padre e un figlio, perché è stato il figlio Luca che lo ha voluto.
Io non conosco Luca Di Bartolomei, ma quando ho aperto il libro, ho pensato prima di tutto a lui e la prima cosa che sono andato a leggere sono state le sue poche parole di introduzione. Poi, cercando di districarmi tra le lacrime, ho messo in moto e sono andato a fare quello che dovevo fare.
Tornato a casa, la sera, ho parlato con mio figlio Luca, anche lui si chiama così, degli allenamenti e del suo campionato da pulcino che sta per cominciare e ho visto la partita del Real Madrid e soprattutto i tre gol di Cristiano Ronaldo. Poi ho cominciato a leggere il libro. Il libro apparentemente è un vero manuale destinato agli educatori di calcio e ai loro allievi bambini, ma invece è molto di più.
“Mi sono fatto una idea abbastanza chiara di quello che papà avesse intenzione di comunicare: in un periodo in cui tutto nello sport e nella vita del nostro Paese stava cambiando rapidamente – e in cui anche nel calcio si stava affermando quella logica autodistruttiva per cui in nome del risultato quasi tutto è consentito, se non si viene scoperti – probabilmente questo libro voleva essere il suo modo di parlare alle nuove generazioni spiegando loro l’importanza della lealtà o del gioco di squadra”
L’ho letto tutto di un fiato, senza fermarmi, passando dalla notte all’alba. Più andavo avanti, più volevo leggere la pagina successiva, anche quando spiega le regole del gioco del calcio, che la mia attività quasi ventennale di arbitro di calcio mi ha fatto conoscere alla perfezione, perché anche in una descrizione che potrebbe essere arida, si sente la passione, il rispetto, vorrei dire quasi l’allegria, che nel volto pubblico di Agostino Di Bartolomei traspariva assai poco. E’ ormai quasi mattina quando la madre dei miei figli mi scopre ancora sveglio, in cucina, con il libro chiuso e gli occhi bagnati. Lei non lo sa, ma è anche grazie a questo libro, che domani cascasse il mondo farò ancora una volta quello che lei non si spiega: andrò al vecchio campo di sassi e terra della Fortitudo Calcio Roma a vedere gli allenamenti dei bambini della scuola calcio, lontano dalle chiacchiere inutili sulla squadra della mia città e del suo grande allenatore che sta cominciando a parlare troppo, lontano dalle conferenze stampa che insultano gli avversari, lontano dalle radio che gracchiano e dalle foto delle donne che accompagnano i calciatori dell’era contemporanea, lontano dai genitori che sognano un figlio professionista, qualunque sia il prezzo da pagare.
Mi metterò lì, sugli spalti, da solo, avvolto nel mio silenzio dei timidi, a guardare dei bambini che giocano al calcio più bello e degli educatori che li aiutano a giocare. Con semplicità.