Il caso riguarda il primo cittadino di Pescara Luciano D'Alfonso, accusato di corruzione impropria per aver favorito un trasferimento di un medico della sua città presso la Asl di Chieti. La Suprema Corte lo ha assolto perché "la condotta esula dai suoi poteri, anche se è tenuta esercitando il proprio peso"
Non commette reato il sindaco che cerca di accomodare i ‘desiderata’ di chi bussa al suo ufficio, se il piacere per il quale si spende, e mette in campo la sua influenza, non rientra tra i suoi “poteri funzionali”. Dunque se poi, in segno di ringraziamento, riceve un regalo dal ‘raccomandato‘, il dono non può essere ritenuto il prezzo della corruzione.
A scriverlo è la Sesta sezione penale della Corte di Cassazione che ha giudicato su un ricorso del pm contro l’ex sindaco di Pescara Luciano D’Alfonso, il quale è stato prosciolto dal gup dall’accusa di concussione. L’ex primo cittadino, “abusando della sua qualità di sindaco di Pescara”, era accusato di aver indotto un uomo e una donna “a promettergli e regalargli un computer portatile”. Il motivo di tale “dono”? La donna, medico della Asl di Pescara, ha ottenuto dal sindaco D’Alfonso l’interessamento presso il direttore generale della Asl di Chieti, per un suo trasferimento nella sede. La persona raccomandata aveva ammesso che l’ex sindaco, “pur essendosi attivato nel sollecitare il desiderato trasferimento, non lo aveva condizionato alla promessa” di un qualche regalo. Si era solo limitato, successivamente, a ricevere il pc in coincidenza “del suo compleanno e delle festività natalizie”.
Nella sentenza n.38762 depositata oggi si legge che il pm della procura di Pescara sosteneva come la condotta del sindaco integrava anche il reato di “corruzione impropria. Il delitto di corruzione – scrivono i supremi giudici – richiede che l’atto o il comportamento oggetto del mercimonio rientri nella competenza o nella sfera di influenza dell’ufficio al quale appartiene l’ipotetico soggetto corrotto, nel senso che occorre che sia espressione, diretta o indiretta, della pubblica funzione esercitata dal medesimo”.
Un requisito, questo, “non ravvisabile nel pubblico ufficiale che non implichi l’esercizio di poteri istituzionali propri del suo ufficio – si legge nella sentenza – e non sia in qualche maniera a questi ricollegabile, ma sia diretto ad incidere nella sfera di attribuzione di un pubblico ufficiale terzo, rispetto al quale il soggetto agente è assolutamente carente di potere funzionale”. La raccomandazione, in sostanza, “è condotta che esula dalla nozione di atto d’ufficio – chiarisce la Suprema Corte – anche se viene fatta da chi mette in gioco il ‘peso’ del suo ruolo”.