Yoani Sanchez è una bandiera, un volto-simbolo, un’icona. E come tale dove passa e qualunque cosa faccia “illumina”, concentra l’attenzione su ciò di cui sceglie di occuparsi, attraverso la lente di ingrandimento che ormai rappresenta, soprattutto per l’opinione – più o meno – pubblica di diversi paesi occidentali. Andando a Bayamo, cittadina orientale di Cuba, dove si è aperto il processo del “caso Payà”, ha attratto l’interesse del mondo, ma anche del regime castrista, che infatti l’ha arrestata – insieme al marito.
Accusata di essere una reporter “illegale”, ovvero non ufficialmente accreditata, del giornale spagnolo (di orientamento socialista) el Paìs. La 37enne blogger dalla consolidata fama di oppositrice grazie ai sui scritti sul web di “Generazione Y” sui mali e le difficoltà della vita quotidiana a Cuba, collabora con il quotidiano madrileno (e con altre testate occidentali); ma la motivazione data dal regime appare debole (seppure pochi giorni fa un gruppetto di giornalisti italiani è stato fermato dalle autorità perché appunto non accreditate presso il ministero dell’Informazione).
Per il regime Yoani è sì una spina nel fianco, ma “infilata” a bella posta “dalla Cia” e dagli altri nemici del regime (compresi gli spagnoli); specularmente per tanti in Occidente è l’unica voce di verità che il regime non riesce a soffocare: idea che fa perdere di vista come ci siano non pochi altri oppositori del regime ai quali però è riservato un trattamento ben più duro della Sanchez (malmenata e minacciata anche nell’autunno del 2009) come il carcere e il silenzio forzato. E la loro mediaticità meno diffusa li rende molto meno visibili ai paladini della libertà d’Occidente che scambiano la visibilità dell’immagine con la potenza dell’impegno contro il regime.