I funzionari avrebbero truffato l'ente per un totale di sei milioni di euro in quattro anni, attraverso "progetti obiettivo" con cui moltiplicavano il proprio reddito per mansioni già teoricamente retribuite. Con buste paga che arrivavano a 60mila euro al mese
Stipendi da decine di migliaia di euro. Ogni mese, per quasi quattro anni. Il dissesto finanziario di Taranto, il più grande crac comunale della storia della Repubblica, passa anche di qui. Dal processo che vede alla sbarra 34 dipendenti comunali accusati a vario titolo di associazione a delinquere finalizzata alla truffa. Secondo il procuratore Franco Sebastio e il sostituto Ida Perrone, gli imputati avrebbero sfruttato i cosiddetti “progetti obiettivo” per svolgere lo stesso lavoro che l’ente civico già retribuiva ogni mese. E così, a fine mese, le buste paga erano da capogiro: fino a 60mila euro, come ha ricordato il pm Perrone. Tra il 2001 e il 2005 un vero e proprio fiume di denaro pubblico è finito nei conti correnti degli imputati. Oltre sei milioni di euro secondo l’accusa. I dipendenti, però, hanno sempre respinto le accuse sostenendo di aver percepito soldi in più per aver svolto mansioni extra per via delle lacune nella pianta organica del comune. Mancanza di personale talmente dannosa da costringere i vertici dirigenziali a preparare progetti obiettivo anche “per mettere in ordine numerico le fatture”. Il 4 luglio 2006, al termine dell’inchiesta guidata dall’ex capitano della Guardia di Finanza di Taranto Emanuele Fisicaro (prestato temporaneamente alla politica e poi sbarcato definitivamente nel mondo accademico), in 22 furono raggiunti dall’ordinanza di custodia cautelare. Nell’ultima udienza la procura ha presentato il conto: 179 anni di carcere per gli imputati. Nessuna assoluzione.
Salato anche il conto presentato dal comune ionico che si è costituito parte civile. L’avvocato Pasquale Annicchiarico ha chiesto un risarcimento di 50 milioni di euro, il sequestro conservativo di tutti i beni mobili e immobili e una provvisionale immediatamente esecutiva di 10 milioni. Nella sua arringa il difensore del comune ha indicato in Luigi Lubelli, ex dirigente del settore risorse finanziarie, il “complice delle operazioni chiave volute” dall’allora sindaco Rossana Di Bello. Un funzionario che “disponendo in maniera esclusiva dei cordoni della borsa ha potuto dispensare a pioggia i pubblici denari in favore dei suoi più stretti collaboratori, complici omertosi in più di una illecita operazione: milioni e milioni di euro che si chiamano ‘stipendi d’oro’ e commissioni comunali, buchi che, negli anni hanno contribuito a determinare la voragine del più grande dissesto d’Italia”.
Ma la politica, in questo processo non c’è. L’ex prima cittadina Rossana Di Bello e la sua giunta, non sono tra gli imputati. “Era ovvio e scontato – ha spiegato Annicchiarico alla corte – che l’organo politico non dovesse e potesse intervenire a porre freno al profluvio di denaro di questo processo dove si liquidano milioni di euro per progetti obiettivo che celano becera attività ordinaria”. Ora toccherà al tribunale presieduto da Michele Petrangelo – a latere Vilma Gilli e Alessandra Romano – ascoltare il folto collegio difensivo e poi emanare la sentenza. Ma la prescrizione incombe.