L’insegna non è un granché. Al limite dell’anonimato. Potrebbe corrispondere a qualunque genere di attività: dalla lavanderia, al negozio di cosmetici, fino a rappresentare l’ultimo sfogo di un hippy appena tornato dalla Giamaica. Si chiama “Melafumo”, scritta nera su sfondo bianco. E’ un ristorante nel quale, visto da fuori, con la porta chiusa, non avrei mai messo piede. Forse.
Sono a Livorno per un articolo. La città la conosco bene, ci vivono da anni, da sempre, mio padre e sua moglie. Una volta, quasi trent’anni fa, al ritorno dalle vacanze di Natale la maestra ci diede un tema: “Scrivete cosa vi ha colpito del posto nel quale siete stati”. Le mie righe le dedicai al porto “perché si incontrano sempre cose (sì, cose) nuove”. Vero. Livorno è una città di porto, in teoria aperta all’esterno, in realtà chiusa su se stessa, nelle sue nevrosi, nei suoi vezzi, conscia e orgogliosa anche della propria rudezza. Qualcuno direbbe ignoranza. E’ una sorta di “villaggio dei Galli”, dove, ed è frequente, le dispute si risolvono con le mani in faccia, le beghe con il “ghigno duro”, dove il “vai in culo” è una sorta di preghiera laica. Dove dissacrare è lo sport preferito. Chi si prende sul serio, viene da fuori. Dove, però, esiste ancora un tessuto sociale forte. Tempo fa c’è stata un’aggressione nei confronti di extracomunitari. Il giorno dopo l’interrogativo è stato uno e uno solo: oddio, siamo diventati anche noi razzisti? No, per fortuna. Livorno è ancora altro.
Il Melafumo ne è la sintesi. Entro. Bandiere rosse ovunque, “Che” a pioggia, Berlinguer esposto più di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, Falce e Martello troneggiano sulle magliette dei camerieri. Altezza cuore. Tovaglie di carta, posate spaiate, piatti anche, pietanze servite in bacinelle di plastica. Sia ben chiaro, tutto pulitissimo. Storco la bocca. Penso sia una presa in giro, una sorta di seduzione compiacente, un business malcelato. Detesto chi sfrutta gli ideali per ingrassare il portafogli. I fatti mi smentiscono. Nelle due ore a tavola saranno entrati una quindicina di venditori ambulanti, alcuni anche eccessivamente invadenti. Purtroppo è così. Nessuno ha mai manifestato alcun cenno di fastidio, di noia, di scortesia. Dai tavoli c’è chi ha offerto da bere, o da mangiare. L’ambiente è informale, ovvio, ma non scontato. Chi ha vissuto le Feste dell’Unità di un tempo, può capire. Il cibo è fresco, si mangia pesce, cucinato in maniera eccellente. La prova? Le conseguenze sul mio stomaco, ottimo parametro per capire dove c’è la fregatura. Tre antipasti, birra, vino, acqua, pane fatto in casa, grigliata, frittura, dolce. Altro dolce. Caffè. Un amaro? No, grazie, sto bene così. Arriva il conto. “Tutto sono settanta euro”. In tre. Ce lo dice a voce. Dentro di me ghigno. “Compagni il cavolo” penso “la ricevuta questi non la fanno”. In fin dei conti a Roma, in certi posti, funziona così: due sorrisi e una cifra scritta a penna sulla tovaglia di carta. Mi alzo. Mi giro. Stiamo per andarcene. Il proprietario ci ferma: “Aspetti, la ricevuta”. Sicuro, ci torno. A Livorno, il villaggio dei Galli.