Scuola

Il rettore di Catania, ovvero la banalità dell’autoritarismo

Cosa è l’autoritarismo? Molto semplicemente è la pretesa di uniformare comportamenti collettivi con la forza, sia essa forza fisica sia forza derivante dalla carica che si ricopre, senza alcun riguardo e fondando la propria azione sull’arbitrio.

Il rettore e il Cda dell’università di Catania ne sono la prova vivente, testimoniando anche a quali esiti si può arrivare applicando alla lettera la legge 240/2010 (legge Gelmini) e portando alle estreme conseguenze i margini di discrezionalità che essa prevede per l’azione – in questo caso azione disciplinare – dei rettori.

Che cosa succede? Semplicemente che il Cda, presieduto dal rettore Antonino Recca, ha prodotto il documento “linee guida comportamentali nel caso di apertura di procedimenti disciplinari”. Si tratta di una specie di vademecum per inquisitori nel quale si stabilisce che nel caso di un provvedimento disciplinare – la cui iniziativa spetta al rettore, come previsto dall’art. 10 della legge 240/2010 – si debbano evitare “interferenze esterne” che incidano sul collegio di disciplina dell’ateneo, sempre previsto, anch’esso, dalla legge 240.

E quali sarebbero queste interferenze esterne? Nientemeno che “pubblici dibattiti, […] assemblee di docenti”, il coinvolgimento di “organi istituzionali o, finanche, organi di informazione, con il rischio, soprattutto in quest’ultimo caso, di gettare discredito sull’intera istituzione universitaria” (da notare l’involontaria comicità del riferimento al “discredito” per la istituzione universitaria, fatto da chi la sta screditando).

Sono passati quasi settant’anni dalla fine dell’esperienza fascista in Italia, ma non avremmo mai pensato di leggere, in un documento prodotto dall’organo di governo di un’università pubblica, che un pubblico dibattito o un’assemblea di docenti o, udite udite, il coinvolgimento di organi di informazione, fossero “interferenze esterne” su un procedimento che deve valutare se un dipendente abbia o meno commesso un illecito disciplinare.

Molto pianamente, si chiama libertà di espressione (art. 21 della Costituzione), al pari del dibattito che si apre durante un processo penale (pubblico per definizione) e che leggiamo sulla stampa o che osserviamo alla televisione.

La trasparenza è una pietanza indigesta per molti, ma per il mondo universitario diventa addirittura mefitica. Facciamo tutto tra noi, evitiamo interferenze, soprattutto, diocisalvi, le pericolosissime assemblee dei docenti o i sovversivi dibattiti pubblici, per non parlare di quella stampa, così curiosa…

Quindi, riepilogando, il rettore di Catania, depositario del potere di iniziativa dell’azione disciplinare, non vuole che alcuno apra bocca mentre il collegio di disciplina (nominato dal rettore su delibera del senato accademico, presieduto dal rettore) decide sui fatti contestati e invia la sua decisione al Consiglio di amministrazione (presieduto dal rettore) per i provvedimenti del caso.

In questo procedimento c’è una persona sempre presente, il rettore. Gli altri devono guardare, fare sì con la testa e, soprattutto, tacere.

L’ha detto Lui…

Però sorge un dubbio: se questi pericolosi dibattiti pubblici sono organizzati fuori dall’università o se il coinvolgimento dei mezzi di informazione avviene spontaneamente, che cosa farà il rettore? Organizzerà squadre di salute universitaria per sgombrare i locali che ospitano i pubblici dibattiti? Oppure darà fuoco alle sedi dei giornali colpevoli di interessarsi dei suoi affari di casa e di famiglia? Purtroppo, quando si comincia a intendere una manifestazione di pensiero come una interferenza, passibile di sanzione – a sua volta – disciplinare, la china è tutta in discesa verso modelli autoritari. La legge 240 era portatrice di contenuti pericolosi, come ad esempio la concessione ai rettori di poteri da pater familias e, tra le altre cose, l’abolizione del collegio unico di disciplina presso il Consiglio universitario nazionale. Questi limiti li abbiamo denunciati a voce alta e bassa, senza essere ascoltati: adesso assistiamo a esiti come questo, che non è il primo e non sarà l’ultimo effetto malato di una legge balorda.

Il rettore di Catania, da parte sua, a quanto pare conosce la Costituzione poco e male, quindi lo vorremmo aiutare, indicandogli, oltre all’art. 21, anche l’altrettanto importante art. 28: “I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti”. Non sia mai che si ritrovi pure lui sottoposto a un’azione “disciplinare” ben più seria e importante.

E il ministro, già rettore, Profumo, che dice? Non sarebbe il caso di dare un’occhiata a questa perla del diritto “privato” (privato di tutto, di dignità e di motivazione) invece di perdere il tempo a perseguire gli statuti di quegli atenei che si sono segnalati per la troppa democraticità e forme di partecipazione?

di Piero Graglia