Economia & Lobby

Crisi: quelli che la crescita è una questione di spesa pubblica

Nella prima lezione del corso di politica economica il Bravo Professore disegna un grafico, con due rette oblique, una ascendente (l’offerta aggregata) e una discendente (la domanda aggregata). Sull’asse orizzontale si rappresentano le quantità di beni e servizi prodotte in un’economia (il Pil), su quello verticale un indice dei prezzi. Il punto di intersezione delle rette viene definito “equilibrio”. Nella seconda lezione il Bravo Professore fa un passo ulteriore: cambia l’inclinazione delle rette, oppure le trasla per spiegare come cambia l’equilibrio macroeconomico quando mutano le condizioni di domanda o di offerta.

Alcuni studenti rimangono folgorati dal giochino. Non rendendosi conto che si tratta di un artificio pedagogico vetusto (risalente agli anni ‘30), anche in età matura continuano a credere che la politica economica nel mondo reale si riduca a spostare una o due rette. Pertanto gli esercizietti di statica comparata sulla lavagna vengono pomposamente definiti “politica di domanda”, “politica di offerta”, “politica monetaria” ecc.

Sfortunatamente l’economia è di gran lunga più complicata delle rappresentazioni grafiche. Un sistema economico crea benessere per tutti quelli che ne fanno parte, quando i fattori (lavoro, macchinari, software, energia, terra, risorse finanziarie eccetera) vengono combinati per produrre beni e servizi di valore superiore a quanto utilizzato. In sintesi, quando il valore dell’output finale supera il valore degli input l’economia cresce, la gente trova lavoro, e il tenore di vita migliora. In caso contrario un paese spreca risorse e la popolazione impoverisce fino alla fame.

Gli economisti studiano come fare in modo che il valore della produzione superi quello dei fattori impiegati, ovvero come rendere un sistema economico capace di generare benessere. Invece i “politici della domanda”, con i loro alambicchi grafici, si illudono di aver approntato l’Elisir di Lunga Crescita. In che consiste? Semplice, basta aumentare la spesa pubblica, così si sposta la domanda sulla lavagna: il Pil sale (e con esso l’inflazione) e il popolo va in estasi come i trucidi in maschera suina ai party pariolini. Di quanto dovrebbe aumentare la spesa pubblica in pratica? I “politici della domanda” non lo specificano. Come per la Divina Provvidenza non v’è limite prestabilito. Si inizia con qualche decina di miliardi, tanto per gradire. Se non basta (e l’esperienza insegna che non basta mai), si aumenta ulteriormente, e poi altre dosi robuste fin quando l’ultimo sodale dei tanti Fiorito, Formigoni o Lombardo sarà ebbro ed ingrassato a dovere su uno yacht ai Caraibi.

Per sgonfiare il palloncino onirico di chi si diletta con i gessetti colorati tracannando l’Elisir, prendiamo il caso concreto di un esperimento über-keynesiano: un paese che tra il 2000 ed il 2009 ha raddoppiato la spesa pubblica (1) come riportato nella Fig. 1.
 
Fig.1 – Spesa pubblica (in milioni di euro)

 

 

 

 

 


(Fonte: World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale)

Di che paese si tratta? Della Grecia. E come mai invece del radioso futuro krugmaniano queste politiche dissennate hanno condotto alla bancarotta? La Grecia ha un’economia che, a parte il turismo e il trasporto marittimo (agevolato dal regime fiscale), non produce nulla di utile, anzi distrugge ricchezza. Quando il governo si indebita per pagare salari a impiegati nullafacenti (ma che in cambio votano il caporione di turno) o per opere pubbliche inutili tipo gli stadi olimpici (pasturando i corrotti), i soldi messi in circolo beneficiano marginalmente l’economia locale. Le clientele e i gangster li spendono in smartphone, televisori, autovetture (e carburante), computer (e software), abbigliamento eccetera, per lo più di importazione. Il made in Greece (se escludiamo due formaggi, un po’ d’olio e qualche alcolico imbevibile) è un marchio sconosciuto. Le velleità dei “politici della domanda” si schiantano sotto il peso di un deficit commerciale monumentale, un debito pubblico insostenibile e un debito estero faraonico.

Gli irriducibili del gessetto colorato si godano i dati nella Fig. 2: il deficit di parte corrente della Grecia è quintuplicato in dollari tra il 2000 ed il 2008 ed è raddoppiato in rapporto al Pil fin quasi al 15% (un livello da ricostruzione postbellica). Il pompaggio di spesa pubblica in un’economia inefficiente è analogo al pompaggio di benzina in un rottame di autovettura.

Fig. 2 – Bilancia dei Pagamenti 

 

 

 

 

 

 

 

(Fonte: World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale)

Ma l’Italia non è la Grecia arguiscono compunti i mezzibusti. Certo, ma comunque arranca con un solo cilindro funzionante e due pneumatici perforati, trainando un apparato pubblico elefantiaco, rapace ed inefficiente. L’ultima cosa di cui si sente il bisogno è l’ulteriore aggravio della zavorra.

Alcoa non chiude per mancanza di domanda, ma perché senza i sussidi estorti ai contribuenti (tramite politici compiacenti) non è competitiva. Le miniere del Sulcis non chiudono per mancanza di domanda, ma perché il carbone che vi si estrae serve esclusivamente ad inquinare. La Fiat è allo stremo perché produce autovetture che pochi comprano. Anche se si triplicasse la spesa pubblica (e si stampassero Bungalire per finanziarla) in Italia tali imprese resterebbero palle al piede inefficienti.

Visto che i soldi piovuti dal cielo verrebbero spesi per lo più in beni importati, per ottenere qualche beneficio temporaneo si dovrebbe tornare al protezionismo stile anni ‘30 (come invocano Grillo e Tremonti). Durerebbe al massimo alcuni mesi, fino a quando gli altri paesi non adottassero misure di ritorsione: dal protezionismo si scivolerebbe quindi verso l’autarchia di marca fascista, a sugello della regola che l’Eden demagogico dell’Uomo della Provvidenza si sposa sempre con le ricette miracolistiche per ipnotizzare le plebi.

Chi alle nubi preferisce la realtà sa che bisognerà riparare il motore e sostituire i pneumatici, togliendo ossigeno ai cleptocrati, non assecondandone i lerci appetiti con le “politiche di domanda” fin troppo ampiamente sperimentate che ci hanno condotto al disastro.

 (1)    Prevengo l’obiezione di coloro convinti che la spesa pubblica vada rapportata al Pil. Quando uno stato si indebita per pagare lo stipendio di chi scalda una sedia o passa il tempo al bar, il Pil comunque aumenta perché ingloba il salario di questo individuo trascurando che il suo valore aggiunto in realtà è zero. Per cui se si riporta la spesa in rapporto al Pil si crea un’illusione ottica causata dai metodi (purtroppo ancora troppo rudimentali e spesso fuorvianti) usati in contabilità nazionale per il settore pubblico.