Se la salute glielo concederà sarà presidente fino al 2019. Ma Hugo Chavez è ancora “superstar” nel 2012. Il più ammirato e detestato dei leader dell’America Latina ha ottenuto la vittoria nella più rischiosa delle scommesse della sua lunga carriera politica: l’ufficiale dei paracadutisti che nel 1992 si arrese dopo aver partecipato in un golpe fallito è stato rieletto ieri dai venezuelani per un quarto mandato presidenziale consecutivo, che lo conferma al palazzo di Miraflores, sede del capo di Stato a Caracas, per i prossimi sette anni. Il presidente ha incassato poco più del 54% dei voti, mentre lo sfidante non è arrivato al 45. Quasi l’80% dei venezuelani sono andati alle urne per scegliere il capo dello Stato.
La vittoria dell’ex militare diventato paladino bolivariano è stata chiara e senza possibili obiezioni: con quasi 10 punti di distanza dal suo rivale dell’opposizione, Henrique Capriles (che si è complimentato per la vittoria), Chavez può considerare del tutto confermato l’appoggio del paese al suo modello di società, che punta a sconfiggere definitivamente i due nemici mortali del “socialismo del secolo XXI“: la “borghesia oligarchica” all’interno, e il suo referente esterno, cioè “l’imperialismo” degli Stati Uniti. Per Chavez, provato dalla stanchezza e indebolito dalla sua lotta contro il cancro – sulla sua malattia le informazioni sono sempre state parziali e opache – la vittoria contro un candidato quasi vent’anni più giovane e che per prima volta in un decennio era riuscito a riunire intorno alla sua piattaforma una alleanza di partiti dell’opposizione costituisce senza alcun dubbio un traguardo importante.
Malgrado il suo stato fisico gli abbia impedito di condurre anche questa volta una campagna tanto intensa quanto le precedenti, l’irrefrenabile candidato-presidente ha sfoggiato ancora una volta la sua capacità oratoria – un pò anatema ideologico, un po’ tono familiare, un po’ enfasi epico e messianico – sulle tribune elettorali, chiudendo con una performance a Caracas sotto una pioggia battente, che ha subito interpretato come una benedizione di Dio. Capriles, il candidato “majunche” (mediocre) – come lo ha sempre chiamato durante l’intera campagna – ha dato in fin dei conti meno filo da torcere a Chavez di quanto non avessero previsto molti analisti politici. Certo il candidato oppositore era partito in salita, con 20 punti di differenza dal candidato-presidente, ma la rimonta non gli è bastata per concludere la corsa segnando una distanza che potesse essere letta come un’incrinatura seria al successo del leader bolivariano.
Il futuro di Capriles resta comunque tutto da vedere, mentre invece Chavez, passata l’euforia della vittoria, dovrà fare seriamente i conti, per fare quadrare l’annunciato “consolidamento del socialismo” nel suo quarto mandato consecutivo alla presidenza con una serie di problemi che preoccupano l’opinione pubblica venezuelana, e un panorama internazionale che presenta nuove sfide da superare se vuole adempiere la sua vocazione di leadership regionale e perfino mondiale. I due principali problemi del futuro governo venezuelano sono l’inflazione, fra le più alte nel mondo, e l’insicurezza: lo stesso Chavez ha ammesso che la serie di “piani nazionali”che ha lanciato negli ultimi anni per debellare la criminalità, soprattutto la piccola criminalità urbana, non hanno avuto l’effetto previsto. Dovrà trovare un’altra formula.
Sullo scenario internazionale, la cosiddetta primavera araba ha spazzato via un governo come quello di Ghedaffi, con il quale manteneva rapporti fraterni, e minaccia ora quello di Bashar el Assad – dipinto dai media governativi di Caracas come la vittima di un complotto internazionale – mentre la pressione internazionale su Teheran ha avvicinato ancora di più il Venezuela all’Iran degli Ayatollah.
A livello regionale, Chavez è riuscito ad approfittare dell’impeachment del presidente paraguayano Fernando Lugo – che ha denunciato come un “golpe parlamentare” – per fare entrare il suo paese nel Mercosur, e l’arrivo di Juan Manuel Santos alla presidenza colombiana ha portato a un riavvicinamento con Bogotà, dopo le distanze accumulate durante l’epoca di Alvaro Uribe. Rafforzato nella sua legittimità, il presidente venezuelano cercherà dunque di rafforzare la sua alleanza con governi come quello del boliviano Evo Morales, l’ecuadoregno Rafael Correa, l’argentina Cristina Fernandez de Kirchner e il nicaraguense Daniel Ortega, promovendo le strutture di integrazione regionale che ha ideato per competere con Washington, come l’Unione delle Nazioni Sudamericane (Unasud) e l’Alleanza Bolivariana (Alba).
Il Venezuela è ”una delle migliori democrazie al mondo” ha poi Chavez, in un discorso di fronte a migliaia di sostenitori a Caracas durante il quale ha mostrato ai suoi simpatizzanti la spada del padre della patria, Simon Bolivar. Quello nella notte della capitale dal balcone del ‘Palacio Miraflores’, sede della presidenza, è stato un lunghissimo discorso, nel quale ha definito quella di ieri “una vittoria su tutta la linea”, visto tra l’altro che – ha ricordato – è riuscito a battere il rivale Henrique Capriles in 20 dei 24 stati del Paese. Durante l’intervento, il capo dello Stato ha ringraziato i venezuelani davanti a una folla di uomini e donne in festa, molti dei quali indossavano le camice rosse del ‘socialismo del XXI secolo’ promosso da Chavez. Il presidente ha poi ringraziato “i dirigenti dell’opposizione” guidati dal Capriles, i quali hanno riconosciuto “la vittoria del popolo. Non si sono piegati ai piani di destabilizzazione che alcuni – ha sottolineato – stavano accarezzando”. “Viva la patria, viva l’allegria, viva il socialismo, ‘hasta la victoria siempre’”: Chavez ha chiuso con queste parole il suo discorso, tra il tripudio dei suoi sostenitori e il frastuono dei fuochi d’artificio.