Dice un mio vecchio amico russo che, nonostante tutto, i russi continuano ad amare l’Occidente

“Nonostante tutto”?, chiedo io. Risponde sorridendo un po’ imbarazzato. “Nonostante tutto quello che è successo dalla caduta del muro in avanti. Ci avete preso a schiaffi. E adesso siamo pieni di nostalgia”.
Mi verrebbe da chiedergli “nostalgia di che cosa?”, ma non lo faccio. Capisco che quello è un altro modo per dire che si possono amare due cose opposte nello stesso tempo, oppure due persone diversissime tra loro, contemporaneamente. Insomma: se stessi e gli altri.

Del resto, loro (donna e uomo della strada, come si usa dire) pensano che in Europa si vive molto meglio che in Russia: meglio protetti, se non proprio più ricchi (è ormai il caso di dire), dalla corruzione, dagli abusi di potere, dal brutto in generale. Anche l’estetica vuole la sua parte.

Ma questo apre il varco a una seconda mia interiezione: di che si parla qui? Dell’Europa, o dell’Occidente in generale? La risposta è imprevista, almeno per me che ho visto con i miei occhi l’ubriacatura russa per l’America degli anni di Boris Eltsin, appena dieci anni fa: “Parlo dell’Europa, che è ormai diventata un magnete di attrazione, ben più dell’America”. E questo vale per tutti, per l’oligarca che sbarca a Londra ogni settimana, o a Parigi, o a Berlino; per il turista della classe media che scende a Roma e a Madrid per fare shopping, o a Cipro, per mettere i soldi in banca, o a Creta, per fare i bagni.

Gli oligarchi “grossi”, insieme all’alone rutilante di ricchezza che li avvolge, fanno sosta a Londra per controllare l’arrivo – cioè il passaggio – dei loro miliardi verso gli off-shore britannici. Oppure a Ginevra e Zurigo, per le altre rotte monetarie.

Tutte forme di amore che promana dall’affinità, una prova ulteriore che, spiritualmente, emotivamente, culturalmente, finanziariamente, la Russia è parte dell’Occidente, e dell’Europa in particolare.

C’è però un “ma”, che richiede qualche postilla, dico io, perché è certo vero che i Russia amano l’Europa, ma l’Europa non ama i russi. 
E questo è un problema. Perché prima si poteva pensare che non li amasse perché erano comunisti. Ma adesso, che comunisti non lo sono più, come spiegare?

Non li ama, è vero, a geometria variabile, cioè chi più, chi meno; chi disprezza e chi odia, chi diffida e chi teme. Tutti fraternamente uniti a chi irride con spocchia a tutte le innumerevoli, insopportabili “qualità” che i russi, con grande liberalità,  spargono a piene mani sui vicini.

La geometria variabile dell’ostilità, per altro, è tutta di misurare anche dall’alto verso il basso, non essendo affatto chiaro quanto sia grande quella dei popoli, rispetto a quella (evidente) dei governi, e viceversa. Certa è una cosa (anche stando ai risultati dell’Osservatorio Europa): che i governi, per esempio di Estonia, Lettonia e Lituania sono più avversi alla Russia (dei russi non gl’importa niente) di quanto non lo siano i rispettivi popoli.  Idem per la Polonia, dove un recente studio sociologico ha dimostrato che i polacchi sono assai meno ostili ai russi di quanto non lo sia, per esempio, il sistema dei media polacchi.

Il che fa pensare che ci sia chi gioca su sentimenti ostili preesistenti, prodotti dalle difficili storie reciproche, alimentandoli artificialmente per scopi politici ben precisi, il primo dei quali è quello di mantenere la più alta possibile tensione tra Russia ed Europa.

Insomma, andiamo così ragionando, io e l’amico russo, davanti a una tazza di tè, soppesando i diversi vettori in campo. Conveniamo che c’è un certo décalage nei tempi e nei ritmi. Per esempio  i russi non si sono ancora accorti della crisi che ha investito l’Occidente. E, quando ci pensano, sono inclini a considerarla come una stranezza transitoria, che presto lascerà il passo alla meravigliosa normalità dell’Impero del Bene.

Non sono disposti a credere che l’amata si stia rivelando ben diversa dalla pulzella illibata che credevano. La crisi americana, poi, non la vedono per niente, essendo il dollaro, per quasi tutti, l’unità di misura eterna del pianeta, una lunghezza più granitica del metro di Parigi,  un peso più universale del chilogrammo, sempre di Parigi. E’ noto che gli innamorati non vedono i tradimenti.

Non manco di far rilevare al mio amico queste considerazioni non marginali. Le vede anche lui, come molti russi, ma le sopporta con insofferenza. Per cui, a un certo punto, sbotta: “Ma insomma! Chi dovremmo amare, allora? Dall’altra parte c’è solo la Cina.  E ti pare che potremmo amare l’Opera di Pechino? Non ci capite niente voi, non pretenderete che ci capiamo qualcosa noi!”

In effetti, così al volo, non saprei cosa rispondere. Mettersi ad amare la Cina non è facile per nessuno. Specie ora che incombe su di noi. A occhio e croce non sembra che neanche loro ci amino, sebbene non abbiano uno sguardo arcigno. Piuttosto si direbbe che ci guardino con una specie di sorriso enigmatico. Semplicemente noi non conosciamo loro e loro sono un continente.

E, comunque, amare chi non si conosce è impossibile per definizione. Poi, riflettendo meglio (ma il mio amico russo se n’era già andato), mi è venuta una risposta. Forse non c’è bisogno di amare qualcuno, o qualcosa, a tutti i costi.

Il fatto è che i russi non possono fare a meno di amare qualcuno. Perché soffrono da sempre, da Pietro il Grande, di un grande senso d’inferiorità, per il quale hanno coniato una parola speciale e difficile da tradurre: “chuvstvo nepolnozennosti” (sentimento d’inadeguatezza?). Che è una cosa molto contradditoria e da maneggiare con cura, perché se la lisci contropelo, i russi si arrabbiano molto. Come spiegò molto bene Aleksandr Pushkin , il loro vate, scrivendo una lettera a Viazemskij, il 27 maggio 1826, mentre andava da Pskov a Pietroburgo: “Io, ovviamente, disprezzo la mia terra dalla testa ai piedi, ma mi diventa insopportabile se uno straniero condivide con me lo stesso sentimento”.

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