Punto d’arrivo di un percorso lungo e incontrastato che ha fatto a pezzi la vecchia capitale morale. Quando è incominciato? La si può rigirare quanto si vuole, ma sempre lì si torna. Agli anni Ottanta. A quando, dopo il terrore delle bierre, la città scoprì il piacevole brivido delle pierre. Le feste, le pubbliche relazioni, le bollicine, la finanza, l’ascesa del virtuale, la fine della fabbrica, delle dinastie d’impresa che avevano fatto i soldi in tre generazioni. Nacquero veloci nuovi imperi, la fatica e il merito sembravano reperti archeologici. Le tangenti sempre più esose e i soldi dell’eroina riversati sulla città da Cosa Nostra generarono una speciale economia. E una speciale ideologia, che si burlava della serietà e amava lo sfarzo facile, trasformato in sinonimo di modernità.
Le casse (pubbliche) da svuotare
Si affermò il cosiddetto rito ambrosiano, che indicava la diligente e leale partecipazione di tutti i partiti al pubblico saccheggio. Nell’orgia del guadagno facile e nell’irrisione della moralità (capovolta in moralismo), il denaro divenne la misura di tutto. La solidarietà restò la coperta ideologica in grado di dare senso alla politica. Della Milano socialista e di quella comunista, e anche di quella ciellina, che sarebbe diventata il baricentro del potere. La Lega e Berlusconi misero una marcia in più, facendo saltare ogni ipocrisia. I soldi, i soldi. Stato, Regione, Provincia e Comune come casse da svuotare il più possibile a fini privati. Più ci si schierava armati di spadoni a difesa dell’identità lombarda, più l’identità si meridionalizzava. Certo, non alla velocità della luce, perché le civiltà sono cose complesse e vischiose.
Ma della vecchia cultura asburgica, tradizionale riferimento della buona amministrazione meneghina, a un certo punto non restò quasi più nulla. Gruppi privati famelici, sotto le mentite spoglie di partiti o di correnti di partito, si ritrovarono padroni di tutto, con un’opposizione che a volte sembrava più preoccupata di non perdere le briciole, come capita a chi pensa che sarà escluso a vita. E quei gruppi incontrarono di più, sempre di più, i voti e i soldi della ‘ndrangheta, continuando a giurare in pubblico sulla sua inesistenza, mica siamo a Reggio Calabria.
E invece viene da chiedersi oggi se, così come è stato commissariato il Comune di Reggio Calabria per contiguità con la ‘ndrangheta, non sia arrivato il momento di mettere sotto i riflettori anche la Regione Lombardia, i cui capi si indigneranno assai alla sola idea. Se non sia il caso di misurare meglio la febbre a questa Milano sciagurata, in cui finalmente si sta aprendo una vera partita tra amici e nemici della mafia. A questa città, questa regione dove il voto di scambio funziona perché qui si ragiona solo a denaro, e così ha finito per ragionare a denaro anche la ‘ndrangheta. Dove la sostituzione del bene pubblico con l’interesse privato più spregiudicato non poteva che generare un’arena di interessi privati disposti a trattarsi reciprocamente alla pari. A fare “rete”, sistema.
Inchieste, accuse e assonanze
E dunque, giusto per capirsi: davvero la vicenda Daccò, il gigantesco sistema corruttivo della Maugeri di Pavia, non ha nulla a che fare con la logica che portò a nominare direttore generale della Asl pavese proprio il reggino Carlo Chiriaco, arrestato due anni fa con l’accusa di essere affiliato ai clan? Nomina contestata da molti professionisti della sanità, ma orgogliosamente rivendicata alla propria responsabilità “politica” dalla Regione di Roberto Formigoni? E davvero la nomina di Chiriaco nulla c’entra con il fatto che proprio nella Maugeri sia stato trovato, ricoverato sotto falso nome, Francesco Pelle, latitante della celebre famiglia di San Luca?
E ancora: c’entra con i criteri di quella nomina la successiva nomina di Pietrogino Pezzano a direttore generale della Asl 1 (competente sull’area dell’Expo!), benché filmato dai carabinieri con uomini della ‘ndrangheta, su cui Formigoni resistette per mesi, anche davanti alla rivolta dei sindaci della zona? C’entrano i cinque consiglieri regionali (più uno andato in Parlamento) che le carte giudiziarie accostano a esponenti della ‘ndrangheta?
Il guaio è che si è formato un sistema. Fino all’ultima accusa: Domenico Zambetti, l’assessore regionale che compra i voti dai clan. E Vincenzo Giudice inutilmente a ruota per sua figlia in Comune. Perché, questa è la notizia, a Milano il voto di scambio politico-mafioso esiste. Qui non siamo mica a Reggio Calabria.
Il Fatto Quotidiano, 11 Ottobre 2012