Secondo investitori e incubatori d'impresa, col decreto 'crescita 2.0' per la prima volta è previsto in modo esplicito che le imprese innovative possano cercare attivamente capitali attraverso i portali online. Ma i tempi lunghi della giustizia e dei pagamenti da parte dei clienti e della pubblica amministrazione non sono stati toccati
“Creare un ecosistema favorevole all’innovazione”. L’obiettivo che si è dato il ministro Corrado Passera con le nuove norme sulle start up è chiaro. Ma che pensano del decreto crescita 2.0 tutti coloro che di quell’ecosistema fanno parte? Dagli startupper agli incubatori d’impresa. E poi i gestori delle piattaforme online di crowdfunding: riusciranno a veicolare con efficacia i capitali sulle intuizioni dello Zuckerberg di turno? Che dice invece chi tira fuori il grano? Da questa parte ci sono i business angels, che mettono capitali propri, e i venture capitalist, che invece raccolgono capitali di rischio in fondi di investimento dedicati alle start up.
Un mondo piuttosto vario. E diviso sulle misure del governo tra chi è soddisfatto e chi ci vede luci e ombre. O un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, per dirla con le parole di Marco Cantamessa, presidente dell’incubatore d’impresa del Politecnico di Torino (I3P). Perché il passo avanti è evidente, ma “il governo non ci ha messo tutto quel coraggio, che è invece richiesto a chi investe in una start up innovativa”. Per Cantamessa è “molto positivo” che il decreto sia stato varato e che all’interno ci sia una definizione precisa di che cosa è una start up innovativa. Ma qualcosa in più andava fatto. Le detrazioni fiscali per chi investe sono più basse rispetto a quello che si vede in altre parti del mondo. “E, soprattutto, manca una riduzione del cuneo fiscale e contributivo”, un’agevolazione – spiega il presidente di I3P – che, riducendo la differenza tra il costo del lavoro e il reddito percepito dal lavoratore, avrebbe favorito quelle giovani aziende che vogliono assumere persone di alto livello. Certo, inserire tutto in un unico decreto era impresa ardua, ma secondo Cantamessa ci sono aspetti “di sistema” che prima o poi dovranno essere affrontati, come i tempi lunghi della giustizia, che spaventano gli investitori esteri, e i tempi lunghi nei pagamenti da parte dei clienti privati e della pubblica amministrazione (“un problema che ammazza le start up”). “E niente è stato fatto per agire sul lato della domanda – continua -. In questo sono maestri gli Stati Uniti, che con il ‘public tecnology procurement’ dedicano una piccola parte della spesa pubblica ad acquistare beni e servizi innovativi dalle aziende”.
Se chi dirige I3P è soddisfatto a metà, più positivo è il giudizio di Ruggero Frezza, presidente dell’incubatore privato M31. Per lui il decreto “va oltre le aspettative”: d’ora in poi – spiega – le start up avranno vita più facile sia per quanto riguarda la ricerca degli investimenti, grazie alle detrazioni fiscali per chi ci mette i capitali, sia per quanto riguarda l’accesso al credito, perché “le facilitazioni per usufruire del fondo di garanzia permettono di ridurre il rischio bancario a fronte della concessione di un prestito”. Una misura della soddisfazione di Frezza è la difficoltà con cui si riesce a tirargli fuori almeno una critica. Che, però, alla fine arriva: “In altri Paesi – ammette – a coloro che investono nelle start up sono garanti sconti fiscali anche sulle perdite”. E’ una misura giusta – spiega – perché lo Stato ci guadagna anche se un investimento non dà il risultato sperato, per esempio grazie alle imposte sul lavoro: “Parte di quel guadagno dovrebbe essere restituito all’investitore a cui è andata male”.
Ma questo il decreto di Passera non lo prevede. Lo fa notare anche Marco Villa, cofondatore e direttore generale dell’associazione di business angels Italian Angels for Growth (Iag). In Italia la legge sulle start up è arrivata in ritardo rispetto a molti altri Paesi: “Chi si muove adesso – sostiene Villa – avrebbe potuto prendere il meglio delle pratiche mondiali esistenti, perché oggi è chiaro quello che funziona e quello che non funziona”. E invece nel decreto del governo, agli aspetti positivi se ne affiancano alcuni negativi. “Manca un aiuto intelligente dello Stato ai finanziamenti – continua il dg di Iag -. In Germania esiste un fondo statale che co-investe nelle start up assieme ai privati, i quali costituiscono un filtro significativo per la selezione di chi aspira ai fondi pubblici, dal momento che rischiano in proprio”. Sull’opportunità di un intervento diretto dello Stato negli investimenti non sono però tutti d’accordo: secondo il presidente di I3P Cantamessa, “un governo non deve fare da venture capitalist, ma creare le condizioni affinché lo faccia la ricchezza privata, che esiste ed è consistente. Un principio che vale ancora di più in uno Stato indebitato come il nostro”. Ma con Villa si schiera Matteo Faggin, un altro che giudica la questione dal lato degli investitori, visto che il programma di accelerazione d’impresa di cui è organizzatore, SeedLab, nasce dall’esperienza del fondo di venture capital TTventure.
“Oltre agli sgravi fiscali, l’esecutivo avrebbe dovuto mettere del denaro fresco in un investimento pubblico che sarebbe servito da innesco”, spiega Faggin che cita il caso di Israele. Lo stato ebraico negli anni Novanta incentivò le start up attraverso il programma Yozma, che prevedeva un investimento pubblico da 100 milioni di dollari. Faggin ritiene anche che la durata delle detrazioni fiscali, limitata a tre anni, sia troppo breve, visto che “chi investe in un fondo di venture capital si impegna per 5-10 anni”. Qualche problema può derivare anche dalla soglia del 50% sotto cui non possono scendere le quote o le azioni in mano a persone fisiche, con lo scopo di favorire l’iniziativa del singolo privato: “E’ un criterio difficile da rispettare per chi opera in settori a maggiore capitale richiesto, come quello farmaceutico e delle tecnologie pulite (tecnologie per produrre elettricità da fonti rinnovabili, ndr). In questi casi dopo poco tempo i fondatori della start up finiscono sotto il 50%, se vogliono reperire il capitale di rischio necessario per andare avanti”. Il limite del 50% lo avrebbe tolto anche Dario Giudici, cofondatore e amministratore delegato di SiamoSoci, una piattaforma online di equity crowdfunding che ha lo scopo di fare incontrare start up e investitori. Per il resto Giudici promuove a pieni voti il decreto: “E’ un provvedimento che va a toccare tutti i punti necessari a favorire l’innovazione – dice -. E per la prima volta è previsto in modo esplicito che le start up innovative possano cercare attivamente capitali attraverso i portali online”. E’ anche dalla Rete, quindi, che passa il destino del nuovo ecosistema da start up.
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