Era lecito sperare che fino alla pronuncia della Corte Costituzionale sul conflitto di attribuzione elevato dal capo dello Stato nei confronti dei Pm di Palermo, prevista per il 4 dicembre, non avremmo più dovuto sentirne parlare, né occuparcene.
Tantomeno a seguito di un intervento a tutto campo da parte del diretto interessato, con tanto di pubblicazione di materiale inedito come la corrispondenza intercorsa con il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, scomparso il 26 luglio, nei giorni più concitati in cui l’opinione pubblica veniva a conoscenza delle telefonate tra Nicola Mancino ed il Quirinale.
Come ha immediatamente sottolineato Marco Travaglio, citato indirettamente nella corrispondenza resa nota dal Capo dello Stato, è altamente inopportuno ed obiettivamente condizionante per i magistrati riproporre in forma di “memoria difensiva” l’intera faccenda, facendo parlare chi non c’è più, proprio alla vigilia della pronuncia del gup sul processo per la trattativa tra Stato e mafia.
Ma quello che risulta altrettanto incomprensibile, per non usare un aggettivo più stringente, è perché Napolitano, se riteneva fondamentale rendere pubblico il contenuto della corrispondenza da cui emergerebbe come “gli attacchi” rivolti al suo consigliere sono destinati miratamente a lui, non l’abbia fatto nel momento stesso in cui ha sollevato il conflitto, il 16 luglio scorso, quando peraltro Loris D’Ambrosio era vivo.
In quella lettera datata 18 giugno (quando vengono pubblicate le telefonate con Mancino) Loris D’Ambrosio scriveva: “non ho mai esercitato pressioni od ingerenze che anche minimamente potrebbero tendere a favorire il Senatore Mancino…”, anche se non è ben chiaro perché dovesse fornire argomenti difensivi quando nelle telefonate con Mancino ribadisce in modo esplicito come il suo operato sia in totale concerto con la presidenza della Repubblica.
Poi sottolineava come “le criticità ed i contrasti [tra le procure] non giovano ad inchieste che per complessità, delicatezza, portata imporrebbero strategie unitarie e condivise oltre che il ripudio di metodi non rigorosi…” E per esemplificare “lo scarso rigore” faceva il caso di persone informate dei fatti o testimoni che diventano per una determinata procura indagati, guarda caso come è puntualmente avvenuto per Nicola Mancino a Palermo.
Quindi dopo aver denunciato “il clima accusatorio” tale da motivare l’accorata preoccupazione che “ogni più innocua espressione sarà interpretata con cattiveria ed inquietante malvagità”, rimetteva il prestigioso incarico nelle mani del Presidente.
La risposta del Presidente, asse portante del suo intervento alla scuola superiore per magistrati a Scandicci, è stata in sintesi “attaccano lei per colpire me”, intendendo ovviamente non la sua persona ma la carica.
Ne discende che il conflitto di attribuzione non sia stato altro che “una scelta obbligata per chi abbia giurato dinanzi al Parlamento di osservare lealmente la Costituzione”.
Ma prendendo per buone queste dichiarazioni, si stenta ancora di più a capire perché chi ha operato sempre e solo nello spirito e nel dettato della Costituzione senta il bisogno compulsivo di un interventismo esasperato e rinfocoli quasi ogni giorno una polemica senza precedenti con giornalisti, magistrati e rarissimi politici che si mettono di traverso.
Se il conflitto di attribuzioni di un presidente della Repubblica contro una procura della Repubblica, senza precedenti nella storia repubblicana, originato da un’ inchiesta di una delicatezza e gravità senza eguali, era “una scelta obbligata”, questo è un motivo in più per tacere ed evitare qualsiasi spunto polemico fino a quando la Corte Costituzionale non si sia pronunciata.
All’indomani della pronuncia, sia di accoglimento che di rigetto del ricorso, Napolitano avrebbe potuto eventualmente rendere pubblico il carteggio, che a suo parere comprova la sua limpidezza e la sua correttezza di garante della Costituzione.
Invece se l’è voluto giocare ancora una volta per rilanciare a sproposito, più del solito, il tema incredibile (con una classe politica decomposta incapace di varare anche una legge anticorruzione non vergognosa) della riforma della giustizia per “comporre finalmente il conflitto tra politica e magistratura”.
Al di là delle intenzioni, il protagonismo presidenziale, nell’ultimo scampolo di presidenza, in pendenza del conflitto dinanzi alla Corte sta raggiungendo limiti quasi imprevedibili, come ha confermato con l’autoinvestitura a giudice di quarto grado riguardo alla condanna definitiva ed ineccepibile della Cassazione nei confronti di Sallusti.