Sì, ieri sera alle 21.10 fremevo sul divano in attesa delle prime note della sigla (leggendaria) di Dallas. Il ritorno della soap opera americana più amata di sempre, a più di vent’anni dall’ultima serie e a più di trenta dalla prima, è un evento che per chi ama gli anni Ottanta e tutto il loro armamentario di pop culture ha una sua rilevanza. Inutile negare, dunque, che ho assistito al ritorno di JR e Bobby Ewing con un certo coinvolgimento.
I risultati Auditel hanno deluso le aspettative (solo 2.564.000 di spettatori e uno share dell’8,52%) e si parla già di uno spostamento del serial dalla prima serata. Ma per chi ricorda il vecchio Dallas, cosa è cambiato? L’operazione nostalgia regge? Televisivamente, il prodotto è quello che è. Larry Hagman (JR), Patrick Duffy (Bobby) e Linda Gray (una Sue Ellen addirittura ringiovanita, miracoli del bisturi) conservano un certo appeal dettato più dai ricordi del tempo che fu piuttosto che dal talento, mentre le giovani leve della famiglia Ewing convincono poco, bellezza estetica a parte. La trama è più o meno sempre la stessa: lotte intestine, senza esclusione di colpi, all’interno di una famiglia composta da stronzi senza scrupoli, più che da fratelli, mogli e figli.
Nonostante tutti i limiti del nuovo Dallas, però, l’impressione che mi ha lasciato il primo appuntamento televisivo è positiva. Culturalmente e sociologicamente, innanzitutto, perché quell’edonismo reaganiano tanto vituperato e criticato, ha comunque rappresentato una cesura importante nel costume e nella cultura popolare degli anni Ottanta. Erano gli anni del boom (anche e soprattutto in Italia), delle tv commerciali, del disimpegno (che non era sinonimo di menefreghismo, però). Erano gli anni di una creatività senza freni e dell’intraprendenza. Erano gli anni migliori della nostra vita, o almeno di quella di un ragazzino di 8-10 anni che proprio in quegli anni si innamorava del pop, dell’America, del villaggio globale come immensa piazza in cui confrontarsi e mescolarsi. E allora benedetto sia il nuovo Dallas, nonostante i limiti “artistici” dell’operazione. Anche perché se è vero che “si stava meglio quando si stava peggio”, figuriamoci quanto si stava meglio quando si stava meglio. O no?