Basterebbe mettere in fila tutte le cover che hanno realizzato per capire di che pasta sono fatti. Attenzione: non ritenetele troppo indicative ai fini della comprensione di ciò che suonano come band. Fondamentalmente, presi singolarmente, i titolari di questi pezzi non ci dicono tutto sulla musica dei Japandroids, anzi, alcuni rischiano di portare un po’ fuori strada un osservatore disattento. Più che altro ci fanno capire quali siano, al di là del background, il grado di assoluta genuinità di questo gruppo ed il rispetto nei confronti di un passato nobile che non può essere dimenticato. Seguendo in rigoroso ordine cronologico il corso delle loro pubblicazioni tra EP, album e B sides dei loro 7”, il menu prevede: To Hell With Good Intentions dei McLusky, Racer-X dei Big Black, Sex and Dying in High Society degli X, Shame di PJ Harvey, Jack the Ripper di Nick Cave & the Bad Seeds e, dulcis in fundo, la cover di For the Love of Ivy dei Gun Club. Non servono ulteriori commenti.

I Japandroids sono un duo canadese formato a Vancouver nel 2006 da Brian King da David Prowse. Avendoli visti alla prova ai tempi del tour seguito alla pubblicazione del loro primo album, tre anni fa, posso affermare che in quest’epoca di relativa scarsità di live performers con i controattributi in ambito rock, questi due ragazzi danno dal vivo una dimostrazione oserei dire commovente di quali emozioni si possono ancora trasmettere con una chitarra radiosa e gloriosa, una batteria cocciuta ed incalzante e due voci che si rincorrono, urlano e cantano accoratamente all’unisono. Un distillato di energia, passione e generosità che proviene evidentemente dalle stagioni del punk, del noise-rock, del post-hardcore, del garage, del grunge.

I loro extended play autoprodotti tra 2007 e 2008, All Lies e Lullaby Death Jams, poi ripubblicati nel 2010 nell’ambito dell’antologia No Singles dalla Polyvinyl, sono solo la prima testimonianza di questo percorso. Il loro magnifico album di debutto uscito nel 2009, Post-Nothing, enuncia con chiarezza ed esaltante ed energica bellezza le radici sostanzialmente garage ed emocore della band che per quanto mi rigurda vanno ricercate tanto nella Washington D.C. della Dischord quanto nella Minneapolis di Husker Du e Replacements così come nella Seattle della Sub Pop. Se devo dire una band a cui penso immediatamente quando ascolto i Japandroids, seguendo forse il cuore e l’istinto più che un ragionamento filologicamente rigoroso, è proprio quella capitanata da Paul Westerberg. Chi condivide culturalmente un certo retroterra, diciamo dal punk in poi, non può non innamorarsi di canzoni come The Boys Are Leaving Town, Young Hearts Spark Fire, Sovereignty, I Quit Girls e soprattutto Crazy/Forever. Post-Nothing è uno dei più bei dischi pubblicati negli ultimi anni, uno dei più sinceri e diretti. Parla dritto al cuore.

Quest’anno è uscito il loro secondo album, sempre su Polyvinyl, disco che si apre e si chiude letteralmente coi fuochi d’artificio. Le coordinate di Celebration Rock, rispetto al predecessore, non mutano considerevolmente anche se forse c’è un piglio a tratti un po’ più punk e qualche accenno alla tradizione in altri momenti. Ad una band che sceglie di reinterpretare uno dei pezzi più incredibili di Jeffrey Lee Pierce non posso dir nulla, posso soltanto stendere un tappeto rosso. Che poi l’originale sia un vertice irraggiungibile anche da questi pur bravi ragazzi canadesi mi interessa relativamente. Come si suol dire, in questo caso mi basta il pensiero perché per quanto mi riguarda i Gun Club sono stati una delle più grandi band della storia del rock.

I Japandroids suoneranno al Covo Club di Viale Zagabria 1 (Bologna, venerdì 19 ottobre). Ad aprire per loro, lungo tutto il tour europeo, i pesaresi Be Forest, band interessante che ha debuttato l’anno scorso su We Were Never Being Boring con l’album Cold, un bel disco dalle tinte darkwave oniriche e suggestive. Pensate a tutte le foreste che conoscete, dai Cure a Forest Swords passando per i Xiu Xiu e per gli XX, moltiplicate tutto per 4AD ed abbandonatevi a Wild Brain e Dust, due pezzi a dir poco suadenti.

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