Rottamare. Quanta inquietudine genera questa parola? Molti raffinati opinionisti ci avvisano di essere inorriditi dall’uso corrente di questo verbo che evoca vecchie ferraglie, lavatrici arrugginite e sfasciacarrozze. L’applicazione di questo predicato agli esseri umani – ad una classe dirigente, per essere precisi – sarebbe il chiaro segno d’imbarbarimento della politica, la conferma del degrado culturale in cui è piombato questo paese negli ultimi vent’anni.
Il verbo giusto sarebbe un altro: rinnovare. Non si rottamano i politici. Piuttosto, li si rinnova. Una cosa seria, umana, non una roba che si improvvisa. “Sono anni che lo facciamo” dicono i professionisti del rinnovamento. Già, è da così tanto che lo fanno, che nessuno se ne è accorto.
Questa curiosa disquisizione linguistica me ne ricorda un’altra che da anni mi sta a cuore e ruota attorno ad un altro verbo: innovare. Sono quasi vent’anni che mi occupo di “innovazione”, ma tale è l’abuso che si è fatto di questo termine che, oggi, appena sento qualcuno proferirla, scappo inorridito al pensiero delle chiacchiere vuote che ne seguiranno. Parola amata da schiere di “innovativi” convegnisti, giornalisti, politici, manager, imprenditori e perditempo di varia natura, che non saprebbero innovare neppure il modo di allacciarsi le scarpe. Parola gattopardesca per eccellenza, splendido strumento retorico brandito come arma affinché nulla cambi di questo paese. Curiosamente questi professionisti che si occupando di innovare coincidono spesso con gli stessi che si occupano di r-innovare. Del resto, che ci vuole? Quando le parole sono vuote, che ci vuole ad aggiungere o togliere una “r”?
Nei paesi dove l’innovazione è cosa seria, come gli Stati Uniti, consci dell’uso strumentale che si può fare della parola, hanno coniato tutta una serie di neologismi che vanno imponendosi rapidamente anche da noi. Le mie preferite sono: startup, dropout e disruption. La prima ci ricorda che l’innovazione è solo chiacchiera finché non c’è un individuo, o un gruppo di individui, che dimostra il coraggio di provarci mettendo in gioco le proprie certezze. Amazon non sarebbe nata se Jeff Bezos non avesse deciso di abbandonare il comodo e ottimamente retribuito posto che aveva a Wall Street. Mark Zuckerberg non avrebbe mai realizzato Facebook se non avesse abbandonato la confort zone dei dormitori di Harvard. La seconda parola, dropout, si riferisce ai tanti innovatori che hanno lanciato le loro imprese abbandonando gli studi universitari (Jobs, Ellison, Zuckerberg solo per citarne alcuni), ma ha una valenza semantica più ampia. Ci ricorda, infatti, che la vera innovazione è fatta da outsiders, o comunque da persone che decidono di andare contro gli equilibri di potere acquisiti (spesso anche a costo di andare contro i propri interessi più immediati). La terza, disruption, splendida invenzione anglofona tratta dal latino (dis + rumpere), chiarisce che l’innovazione non è mai un pranzo di gala. L’innovazione implica la generazione di valore (soldi, benessere, educazione, salute ecc.) ma anche vincitori e sconfitti, ossia benefici più distribuiti a spese delle posizioni di rendita.
E allora sarà forse più chiaro perché amo il verbo “rottamare”. Ha ridato un senso compiuto – e non solo auspicato – al rinnovamento. Ha consentito di riappropriarci del significato perduto di quell’antico ritornello ormai sacrificato sull’altare di interessi sclerotizzati. Non più solo intenzione, ma soprattutto azione, sancita ormai dalla caduta delle prime onorabili teste (Veltroni, D’Alema e compagnia bella).
Molti detrattori della parola ci avvisano che la rottamazione crea un vuoto: l’illusione di un rinnovamento che deve venire. Spalanca le porte di un futuro incerto, preda di raiders e briganti senza scrupoli. Si sbagliano di grosso. La rottamazione non è la causa di un rinnovamento, ma un processo in corso. È il paese che si è rinnovato. Il merito del Sindaco di Firenze, Matteo Renzi, non è stato tanto quello di farsene interprete, quanto vero e proprio agente (cosa ben più complessa e pericolosa). Questa crisi tremenda che viviamo sta solo accelerando il processo. Poverini, i rinnovatori di professione, non se ne sono neppure accorti.
Ora servirebbe che qualcuno ci aiutasse a trovare un sostituto anche per la parola “innovare”. Chissà che quell’ingegnoso linguista, figlio della città di Dante, non ci aiuti a trovare un nuovo termine efficace anche qui. Ottamare?
Twitter @pwk