Che cosa hanno in comune Beppino Englaro, Giuliano Pisapia e Maometto? Tutti e tre sono “mostri” sbattuti in prima pagina, accusati di reati infamanti per imperizia, o peggio, perché considerati obiettivi da colpire. In altre parole sono vittime di diffamazione. Ed ecco che il fondatore dell’Islam si trasforma in un pedofilo (Daniela Santanchè), il sindaco di Milano in un ladro di furgoncini (Letizia Moratti) e il padre di Eluana in un uomo che vuole uccidere la figlia in coma (autori vari).
Il film “Al Qaeda! Al Qaeda! Come fabbricare il mostro in tv” raccoglie alcune delle storie dei tanti diffamati che loro malgrado hanno occupato le cronache degli ultimi tempi, “persone in carne e ossa finite nel tritacarne dell’industria della disinformazione”. Attraverso le testimonianze dirette degli interessati e grazie a una raccolta di materiali d’archivio, il documentario di Luca Bauccio, Giuseppe Scutellà e Walter Baroni prende in esame alcuni dei casi più clamorosi. Come quello di Youssef Nada, il banchiere svizzero di origine egiziana accusato di essere uno dei finanziatori di Al Quaeda. Dopo una vicenda durata anni, il suo nome viene eliminato dalla black list dei fiancheggiatori dell’internazionale del terrore, l’indagine aperta dalla procura di Lugano archiviata e gli inquirenti condannati a risarcire le spese legali. Non solo: il Corriere della Sera è condannato per diffamazione dalla corte d’Appello di Milano.
Sempre a proposito di Islam e costruzione mediatica del mostro, la pellicola racconta anche la vicenda assurda di Rassmea Salah: 29 anni, italo-egiziana, con un forte accento milanese. La donna (mediatrice culturale, collaboratrice di diversi giornali e specializzata in studi arabo-islamici) è presidente di seggio a Bresso (Milano) durante le elezioni provinciali del 2009, ma a un certo punto diventa la donna del burqa. Come è possibile? Grazie a un servizio di Studio Aperto su “un seggio molto particolare”, perché a presiederlo è “un’islamica con il volto coperto”. Con tanto di vox populi: una signora indignata perché ciò è “in contrasto con le nostre tradizioni”, un cittadino imbeccato dal cronista che sottolinea come la cosa gli dia “un’idea di poco chiaro” e così via. In realtà Rassmea non ha il volto nascosto (cosa peraltro vietata dalla legge), indossa semplicemente il chador, il velo tradizionale che copre il capo delle fedeli musulmane. “Mi sono sentita umiliata e offesa, hanno violentato la mia identità – racconta agli autori del documentario – Soprattutto perché il mio lavoro di anni sul’incontro di civiltà è stato spazzato via da pochi minuti di televisione. Per l’Italia intera ero diventata la donna integralista con nijab”.
Cose che capitano. Soprattutto in un paese dove basta un articolo di giornale per trasformare un traliccio della Wind in un minareto. E’ il 24 aprile 2011 e Il Giornale titola: “L’islamizzazione del Paese. Lo scandalo del minareto a Milano”. E ancora: “Per la prima volta un muezzin ha chiamato alla preghiera da una moschea italiana”. Con tanto di fotografia dove, cerchiati in rosso, sono ben visibili gli altoparlanti dai quali si urla che Allah è grande. Peccato che anche in questo caso sia tutto falso: in realtà il minareto è un’antenna della compagnia di telecomunicazioni e quelli spacciati per megafoni sono dei semplici ripetitori. Inutile dire che dalla torre telefonica nessun imam ha mai chiamato alla preghiera nessun fedele.
Queste sono solo alcune delle storie raccontate nel film, perché l’elenco dei perseguitati è lungo: dalla giornalista antisemita, al leader di una pericolosa psico-setta, fino al caso di Eluana Englaro che “non è morta – come urla il parlamentare Pdl Gaetano Quagliariello – E’ stata ammazzata”. Da chi? Dal padre, ovviamente.
“In una democrazia non è accettabile che il mondo dell’informazione venga inquinato da menzogne costruite a tavolino – accusa Luca Bauccio, uno dei tre autori del documentario – E’ per questo che abbiamo voluto far salire, almeno per una volta, le vittime sul ‘palcoscenico della democrazia’. Perché non si è mai sentito un direttore di giornale scusarsi, con sincerità, per aver detto una bugia”.
Al contrario, diffamare conviene: fa guadagnare copie, lettori e ascoltatori. Poco importa se prima poi una sentenza darà ragione, con tanto di risarcimento economico, a chi è finito dentro gli ingranaggi della persecuzione a mezzo stampa. “Non c’è prezzo per l’onore infangato”, dice l’autore. “Solo il tempo potrà lenire la sofferenza che ho provato in quel momento”, aggiunge Rassmea, la donna del burqua di Studio Aperto. “Bisognerebbe sapere di quale straordinario potere si dispone quando si pubblica una notizia esagerata o non corretta”, sottolinea Bauccio. Ma già nel 1972, nella sua pellicola ‘Sbatti il mostro in prima pagina’, Marco Bellocchio sentenziava: “Che cosa vuole che conti di fronte a tutto questo l’innocenza o la colpevolezza di un qualsiasi Mario Boni?”