Non è un film per giovani, On the road, nei cinema in questi giorni. Non so dire neppure se sia meglio o peggio del libro, perché il libro non l’ho mai letto davvero, l’ho solo cominciato mille volte, tanto tempo fa: come Siddharta, altro cult della mia generazione che non ho mai sopportato. Sarò anche uno snob, ma da scrittore questa faccenda di fumarsi tutto il fumabile al fine di sfornare capolavori mi ha sempre dato sui nervi: si chiama doping, tecnicamente. Al massimo riesco ad ammettere i bicchierini di sherry di Thomas Eliot, che da buon puritano non riusciva a scrivere se non era lievemente alticcio, e che però ha scritto Terra desolata, mica I vagabondi del dharma. Ecco, tutto ciò che va oltre lo sherry lo considero concorrenza sleale.

Ma queste sono mie fisse letterarie, il punto è un altro. On the road non è un film per giovani perché un giovane, oggi, manco lo capisce più cosa ci fosse di così trasgressivo in tutto questo farsi, e correre, e scopare, è tutta roba già vista in tv o in rete senza neppure alzarsi dal divano, cose da sballo obbligatorio del sabato sera, sai che palle, e poi se qualche professoressa del liceo Marilyn Monroe, saputo che hai visto il film, ti costringe pure a leggere il libro e a farci su la ricerca? Insomma, ai miei figli mi guardo bene dal proporlo: anche perché se lo vedono e intuiscono che questi sono stati i modelli della mia generazione, è finita, fanno due più due e capiscono perché ci siamo ridotti così.

Eppure non mi dispiacerebbe che lo vedessero: potrei anche proibirglielo per ottenere l’effetto contrario, ma ormai hanno capito il trucco. Perché il film è educativo, a suo modo: ad esempio, vedere come gli intellettuali di sinistra di allora trattavano le donne, madri mogli e morose, vale più di cento seminari sulla parità. Poi perché quando i protagonisti cominciano a farsi di benzedrina, cosa che non consiglierei al mio peggiore nemico, non lo fanno come quelli che si drogano di playstation, per sfuggire alla realtà, ma per la ragione opposta, per allungare smisuratamente le loro vite.

Le morali della storia sono due. La prima, più discutibile, ha almeno il pregio di essere semplice: o si vive o si scrive, Dean vorrebbe scrivere ma non può fare a meno di vivere e di combinare disastri, mentre Sal vorrebbe vivere ma l’unica cosa che fa davvero, in tutto il film, è scrivere. La seconda, più intrigante, è nascosta in scene minori, come quella dell’autostoppista che chiede da fumare al camionista che lo ha tirato su, e quello gli risponde che il camion trasporta dinamite, però gli passa lo stesso la bottiglia del whisky e i due attraversano l’America così, ciucchi persi, come una coppia di bombe umane. Bene, lì uno capisce che la trasgressione vera non sono l’alcol, o le canne, o qualche altro genere di trip, ma proprio l’infinita casualità del viaggio.

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