Musica

“Stefano Bollani & Irene Grandi”: il nuovo album jazz, ma non solo

I due artisti, amici da una vita, hanno lavorato al cd "con il pensiero", per dieci anni. Ma l'hanno realizzato in soli dieci giorni. Tempi, modi e strumenti da jazzisti. E due voci: finalmente il pianista riesce a dare sfogo alla sua voglia di cantare

di Valeria Gandus

“A me me piace ‘o blues” canta Irene Grandi e suona Stefano Bollani, ma quando avevano vent’anni facevano il rock, con imprevedibili sterzate rap: “La sostanza ti sostenta / Ma è la forma che conta” rappeggiavano nell’omonima band (La forma) di scarsa fortuna e sommo divertimento, almeno per loro. Vent’anni e due solide carriere dopo – lei stella italica del pop-rock, lui eccelso pianista jazz con incursioni nella classica che l’hanno portato anche alla Scala con Riccardo Chailly, si ritrovano oggi a duettare in un piccolo gioiello discografico, preludio a una prevedibilmente scoppiettante tournée su e giù per l’Italia.

Irene Grandi & Stefano Bollani”, s’intitola così, semplicemente con i loro nomi, l’album (nei negozi dal 23 ottobre per Silenzio, nuova etichetta di Carosello) al quale hanno lavorato, almeno con il pensiero, per dieci anni e che hanno realizzato in soli dieci giorni. Tempi, modi e strumenti da jazzisti: una voce (a volte due: finalmente Bollani riesce a dare – moderato – sfogo alla sua voglia di cantare), un pianoforte, professionalità, complicità, divertimento. E come capitava ai grandi del passato, Sinatra docet, spesso: “buona la prima”. Certo si sente che i due sono amici da una vita e che come tutti gli amici hanno cantato insieme tante volte, in auto e in vacanza oltre che nelle ospitate televisive, per piacere certo più che per obblighi professionali. Si capisce che, oltre a volersi bene, si stimano. Ed è evidente che, pur avendo percorsi diversi, parlano la stessa lingua, quella della buona musica. “Per questo disco che vagheggiavamo da sempre, ognuno suggeriva all’altro brani e idee, talvolta accettate, spesso cassate» raccontano.

“Idealmente l’album, o meglio la lista dei pezzi era pronta da almeno due anni, ma eravamo tutti e due sempre molto impegnati e solo all’inizio di quest’anno abbiamo trovato i famosi dieci giorni per registrarlo”. Non avevano altro committente che se stessi, Irene e Stefano. “Metti che venga una schifezza” si dicevano scaramantici. Lo splendido isolamento ha giovato dando spontaneità e freschezza alle esecuzioni, ma soprattutto ha consentito loro di fare quello che volevano come volevano, perché nessuna casa discografica ha imposto o solo suggerito che cosa mettere o non mettere, come e con quali strumenti suonare, quali effetti aggiungere, eccetera. Solo a lavoro ultimato l’hanno presentato alla casa discografica che l’ha pubblicato senza alcun ulteriore intervento Il risultato è un disco decisamente anomalo per entrambi, forse più per Irene Grandi, essendo Bollani aduso a incursioni in ogni genere musicale.

Ed è un’anomalia che fa benissimo alla cantante di Bum bum o Bruci la città. La sua voce profonda, da contralto, riesce ad accendersi di nuove gradevoli sfumature, soprattutto nei pezzi brasiliani – un genere prediletto da Bollani – come il magnifico Olhos nos Olhos di Chico Buarque de Hollanda (del quale Grandi e Bollani firmano la versione italiana) o Medo de amar di Vinicius de Moraes o, ancora, La gente e me, versione italiana d’antan (firmata Sergio Bardotti) di Chuva di Caetano Veloso e Roda viva (Chico Buarque) cantata in duo, un dichiarato omaggio a Tom Jobin e Elis Regina. “È un genere che ho sempre amato, soprattutto nelle interpretazioni di Caetano Veloso e Gilberto Gil, ma è stato Stefano a farmi scoprire Chico Buarque, che oggi è il mio preferito” dice Irene che prima di registrare l’album si è preparata con un chitarrista brasiliano per entrare nel mondo e soprattutto nella lingua brasiliana. Non mancano, fra i 12 brani della lista, classici del song book americano come Once in my life o Dream a little dream of me, standard jazz come Darn that dream, brani pop come No surprises dei Radiohead e, naturalmente, il blues di Pino Daniele, oltre che una folle ma impeccabile esecuzione di Viva la pappa col pomodoro (Rita Pavone). Ma è un pezzo italiano, Costruire, di Niccolò Fabi, quello forse più sorprendente per l’intensità e la magica fusione di testo e interpretazione. A chi gli chiede se, visto che funziona, la coppia sia pronta per Sanremo (frequentato con profitto da Grandi diverse volte), Bollani risponde che nessuno gliel’ha ancora proposto, ma che, nel caso, lui declinerebbe l’invito.

C’e già abbastanza, in questo bellissimo album, di che far storcere il naso ai soliti puristi del jazz che vorrebbero Stefano alle prese sempre e soltanto con il jazz, concedendogli al massimo qualche distrazione con la classica. Ma lui, che è un musicista vero, dunque sopra e oltre i generi, se ne impippa e fa quel che gli garba. Come partecipare al nuovo disco di Jesper Bodilsen, il bassista del trio con cui suonava nella fortunata trasmissione tv Sostiene Bollani, pensare alla composizione dei brani per l’album che registrerà a New York l’anno prossimo per Ecm, o scrivere un libro. Anzi il libro l’ha già scritto: s’intitola Parliamo di musica. Ma questa è un’altra storia.

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