“Femminicidio, siamo sicuri che esista?”, chiede Adriano Mazzola nel suo ultimo post. Sarebbe troppo semplice dare una risposta a questa domanda chiedendolo a Carmela Petrucci, 17 anni, uccisa a Palermo dalle 20 coltellate di Samuele Caruso, ex fidanzato della sorella Lucia, ancora ricoverata in ospedale e superstite, puramente casuale, dell’ultimo episodio di violenza ai danni di una donna. Sarebbe troppo semplice e nello stesso tempo impossibile visto che Carmela è morta nell’impeto generoso di salvare la sorella dalla furia calcolata di questo 23enne che non ha saputo accettare l’abbandono della ragazza amata.
Ultima vittima in ordine di tempo, Carmela è diventata il simbolo inconsapevole di una battaglia tra falangi ideologicamente armate. Da una parte i maschi, dall’altra le femmine, in mezzo un dibattito tanto polemico quanto sterile sull’utilità di definire l’uccisione di una donna con il termine, appunto, di “femminicidio”. Strumenti di guerra, i numeri. “Sono cento le vittime dall’inizio del 2012” dicono le donne, “sì, ma sono numeri relativi”, rispondono gli uomini, bypassando del tutto il vero nocciolo del problema. Ossia, il motivo per cui, nel 2012, cento donne e più sono morte per mano di padri, fratelli, mariti o compagni. Per mano di coloro che, nel normale corso degli eventi, rappresentano la cerchia degli affetti più vicini e insieme più sicuri.
Sarà forse utile allora, più che arrovellarsi sul significato e sull’applicazione del termine “femminicidio”, aprire un dibattito sulle cause, confrontarsi sulle modalità attraverso le quali oggi uomini e donne vivono la relazione affettiva e amorosa, interrogarsi infine sul concetto di possesso che troppo spesso si sovrappone e si sostituisce a quello di relazione.
E’ in questa prospettiva che si deve tornare a parlare (parlare, non “ciarlare o “cianciare”) di “incivile soggezione, sopraffazione cruenta, violenza inaudita e perpetua, grave disparità di trattamento, terrore psicologico e fisico” subiti dalle donne ad opera di uomini incapaci di riconoscere alle loro figlie, madri, mogli e compagne un ruolo da protagoniste dotate di una propria individualità. Qui sta il compito informativo dei mass media, o almeno il nostro (de Il Fatto Quotidiano e di Donne di Fatto come sezione concentrata sulle tematiche di genere): nessun intento mistificatorio, nessuna caccia all’uomo cattivo, nessuna guerra tra i sessi. Quest’ultima è in corso da tempo e conta già troppe vittime.