La cantante, docente al conservatorio di Santa Cecilia, ha collaborato con i più grandi del panorama musicale, da John Taylor a Ralph Towner: "Napoletani e brasiliani, come dice Veloso, sono due popoli impertinenti perché ne hanno viste di tutti i colori: da qui nascono lirismo e malinconia"
Il 2012 musicale è anche l’anno di Maria Pia De Vito, una delle voci più raffinate del panorama jazz europeo. “È un anno vibrante, oltre all’assegnazione della cattedra di canto jazz al conservatorio di Santa Cecilia in Roma, ho messo su diversi progetti impegnativi: Roden Crater Project e Pergolesi. Infine a breve partirò per un tour mondiale“. Il suo gusto per l’improvvisazione, la cura per il ritmo e la danza nel canto l’hanno portata a collaborare con grandissimi nomi del panorama musicale come John Taylor, Ralph Towner, Rita Marcotulli, Paolo Fresu, Enrico Rava. Proprio dall’incontro con il pianista John Taylor e il chitarrista Ralph Towner nasce il disco “Verso”. Grazie a questo disco, nel 2001, viene inserita a fianco a Caetano Veloso, Joni Mitchell, Cesaria Evora e Carlos Santana, nella categoria Beyond Artist di Down Beat, la bibbia del jazz mondiale. La cantante napoletana che di recente ha cantato, per la prima volta nella storia, nel carcere dell’isola di Santo Stefano, poi ha fatto tappa in Germania e, invitata dal compositore brasiliano Guinga, partirà per una serie di concerti a Rio, San Paolo e Buenos Aires. Un ponte che unirà la tradizione musicale napoletana con quella brasiliana.
Il 7 settembre scorso al “Festival Rumori nell’Isola”, per la prima volta nella storia, hai suonato nel carcere borbonico dell’Isola di Santo Stefano.
“Sì, è stata un‘esperienza incredibile che ho condivido con la contrabbassista Silvia Bolognesi. Si è creata un’atmosfera magica in cui abbiamo improvvisato all’interno del carcere che ha “ospitato” lo scrittore Luigi Settembrini e, durante il ventennio fascista, colui che sarebbe diventato presidente della Repubblica: Sandro Pertini. Un carcere costruito sulla stessa pianta del teatro San Carlo di Napoli. Un concerto intimo per pochi eletti, anche, perché l’isola e il carcere non sono facilmente raggiungibili”.
Come è nato l’incontro con Guinga?
“Guinga è cresciuto con la canzone napoletana, due anni fa mi ha invitato ad un suo concerto a Roma e per l’occasione tradussi, in due giorni 5 pezzi in napoletano, lui entusiasta mi disse: ‘tu compositora, tua musica napoli progressiva’. Mi commosse. Da allora non ci siamo più persi e ora ci ritroviamo di nuovo sullo stesso palco ma stavolta a casa sua”.
Cosa accomuna la cultura brasiliana a quella napoletana?
“Amo la definizione di Caetano Veloso che definisce i napoletani e brasiliani, due popoli impertinenti perché ne hanno viste di tutti i colori. Credo che da questa impertinenza viene fuori il lirismo e la malinconia che li accomuna. Poi trovo le due lingue, portoghese e napoletana, estremamente visionarie e poetiche. Quando canto fuori dall’Italia mi colpisce sempre lo stupore con cui il pubblico accoglie la mia miscela musicale che fonde melodie napoletane e brasiliane su un impianto jazz. La melodia napoletana esercita un grande potere nell’immaginario del pubblico estero. Un linguaggio che mi ha permesso di essere me stessa all’interno di una cultura afro-americana”.