Convenzione non è una parola molto usata nella politica italiana, nemmeno nei movimenti delle donne. La rimise al centro dell’attenzione, negli anni ’90, Lidia Menapace, una delle più autorevoli esponenti del femminismo italiano, non solo per lanciare una convenzione di donne contro le guerre, con la quale dire che la dimensione bellica doveva essere messa al bando dalla storia umana, ma anche per indicare una strada politicamente interessante: dal momento che non è semplice lavorare insieme, quando i soggetti collettivi che si incontrano hanno storie e identità strutturate, la convenzione può essere uno strumento leggero che rende possibile, su obiettivi comuni, fare percorsi a tema. Unire le forze di fronte alla necessità di non disperdersi, mantenendo la propria specificità, e affermare che su un argomento, un progetto, una emergenza si deve stare insieme, tante e diverse ma con una voce sola.
E’ per questo che alcune realtà femministe italiane, tra le quali Udi, la Casa internazionale delle donne, la rete di giornaliste Giulia, Telefono rosa onlus, DiRe e Piattaforma Cedaw hanno lanciato non solo un appello, ma una convenzione alla quale aderire in previsione del 25 novembre, data ormai riconosciuta come la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Per chi voglia sapere cosa propone questa convenzione e quali siano i cardini sui quali si muove e chiede adesioni il link è http://convenzioneantiviolenzanomore.blogspot.it/p/blog-page.html.
Ma il dato più significativo dell’iniziativa, a mio parere, sta nel ribadire con forza un aspetto all’apparenza secondario: sottolineare che non è più possibile derubricare le morti delle donne per mano maschile come dei ‘semplici’ atti di violenza omicida. Questi delitti si chiamano – ripetono le estensore del documento “No More-Convenzione contro la violenza maschile sulle donne – femminicidio” in un modo preciso per indicare un problema preciso: femminicidio.
Già Rosa Luxemburg, (ben prima degli anni ’70 nei quali si disse che le parole erano pietre), scriveva che “il primo atto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro nome”. Non è un caso che per indicare alcuni comportamenti sessisti in Italia non ci siano le parole per dirli. Nel generico molestie sessuali ci sono diverse fattispecie di offese e atteggiamenti violenti contro le donne che, per esempio, in inglese si differenziano tra “street harassment” oppure “stalking”, o ancora “sexual mobbing in the workplace”, tutti comportamenti precisi, che tra l’altro in diversi paesi hanno specifiche leggi a definire specifici reati.
Perché altrove le parole ci sono e si usano, mentre in Italia si fatica a far passare il concetto di femminicidio? Azzardo una risposta: perché il negazionismo, sempre in agguato quando si tratta di questioni che coinvolgono le relazioni tra i generi, è la strada più facile per evitare di ragionare. Se si liquida la faccenda con una alzata di spalle, storcendo il naso alla parola femminicidio definendola la solita macchinazione di quatto femministe, si evita di affrontare il cuore del problema: non tutti gli uomini sono assassini, ma alcuni uomini uccidono le donne che hanno amato, o con le quali sono in relazione a vario titolo, perché esiste consenso, in varie forme, per giustificare questa violenza, o comunque i vari gradi di escalation che la precedono. Non si nasce femminicida, ma lo si può diventare anche perché esiste una sottovalutazione sociale frequente dei passaggi che precedono l’approdo alla violenza finale: si tollerano forme di sessismo definite ‘scherzo’, si simpatizza con varie forme di disprezzo e di volgarità contro le donne che costituiscono il terreno di coltura che è già sinonimo di violenza. La rete ne è piena, i social network e Youtube pullulano di siti ‘divertenti’ che in realtà sono, spesso, istigazione a delinquere.
Fino a che non tanto la parola femminicidio, ma il senso della parola stessa non sarà reso evidente nella sua chiarezza ogni donna uccisa sarà ammazzata due volte: da chi l’ha privato della vita e da chi non vede quello che accade.