Lo riferisce il Wall Street Journal citando gli ultimi dati pubblicati dalla società finanziaria EPFR Global: nei primi otto mesi del 2012, i flussi di capitale verso i fondi che operano nel continente sono saliti a quota 2,53 miliardi di dollari, segnando così una crescita del 15% su base annuale. E un aumento del pericolo speculazione
Per qualcuno è un affare rischioso, per altri si tratta della nuova frontiera degli investimenti alternativi. Le certezze, per ora, sono la crescita del trend generale e l’interesse senza precedenti da parte degli investitori. Forse stanchi di giocare sugli spread della crisi europea, alcuni fondi d’investimento sembrano aver trovato una nuova strategia operativa: l’acquisto massiccio dei debiti africani. Lo riferisce il Wall Street Journal citando gli ultimi dati pubblicati dalla società finanziaria EPFR Global: nei primi otto mesi del 2012, i flussi di capitale verso i fondi che operano nel continente africano sono saliti a quota 2,53 miliardi di dollari segnando così una crescita del 15% su base annuale.
I numeri parlano chiaro. Il mese scorso, segnala ancora il quotidiano Usa, lo Zambia ha emesso bond a dieci anni per 750 milioni di dollari, una cifra enorme se paragonata al suo Pil (in proporzione, per intenderci, sarebbe come se l’Italia collocasse sul mercato Btp per 80 miliardi di dollari): ebbene, in occasione dell’asta, la domanda ha superato l’offerta di oltre 15 volte. A settembre, la Nigeria ha collocato in asta titoli a 5 anni ottenendo una richiesta doppia rispetto all’offerta. Kenia e Ruanda dovrebbero emettere i propri titoli sovrani almeno una volta nel corso del prossimo anno.
A spingere l’interesse degli investitori c’è perlomeno una palese combinazione di fattori: da un lato i rendimenti elevati di questi titoli, dall’altro un sostanziale aumento della fiducia nelle potenzialità di crescita e di stabilità politica del continente africano. Qualcuno, come la banca d’investimento Wells Fargo non appare del tutto convinto (per il momento, riferisce ancora il WSJ, la banca non ha ancora acquistato i titoli di Stato nigeriani per i quali aveva espresso interesse); altri, come ING Investment Management si sono invece già lanciati nell’affare attratti dai tassi offerti. All’inizio dell’anno, i bond quinquennali della Nigeria (ai quali Standard & Poor’s attribuisce un rating B+) rendevano il 15,4%, ad ottobre gli interessi offerti erano calati al 13,4%. Titoli equivalenti del governo dello Zambia, stesso rating, hanno visto i loro rendimenti calare dal 14,2% di gennaio all’11,5 di ottobre. Come a dire che la domanda degli investitori sta alimentando la fiducia dei mercati in questi Paesi riducendone così i costi di finanziamento.
Il meccanismo insomma sembra funzionare, rafforzando sempre più una nuova ipotesi di politica economica e monetaria nazionale. Invece di ricorrere agli aiuti allo sviluppo e ai prestiti bilaterali provenienti da altri Paesi, alcune nazioni africane potrebbero ora decidere di affidarsi sempre più al mercato per finanziare la propria economia e i propri investimenti infrastrutturali. “Negli ultimi cinquant’anni i Paesi ricchi hanno trasferito aiuti ai Paesi poveri per oltre 1 trilione di dollari. Gli africani stanno forse meglio? No” affermava tre anni fa Dambisa Moyo, economista nata a Lusaka, nello Zambia, e protagonista di una strepitosa carriera tra gli uffici di Goldman Sachs e della Banca Mondiale. La risposta alla domanda di sviluppo, scriveva nel suo best seller Dead Aid (2009), non starebbe quindi nel sostegno internazionale quanto, piuttosto, negli investimenti. Come a dire, dal concetto di missione umanitaria a quello di terra delle opportunità. Un nuovo paradigma dell’aiuto allo sviluppo.
La tesi resta affascinante anche se, come ha sottolineato qualcuno, potrebbe risultare troppo semplicistica. In primo luogo perché gli investimenti portano inevitabilmente alla crescita, ma la distribuzione della nuova ricchezza è spesso iniqua. In secondo luogo perché gli aiuti non producono necessariamente sviluppo, è vero, ma ad influire negativamente sulla loro efficacia sono soprattutto i fattori esterni, tra i quali, è bene ricordarlo, ci sono anche i debiti con l’estero. E’ la solita storia: quando i tassi appaiono convenienti la propensione all’indebitamento aumenta; quando esplodono la debolezza dell’economia favorisce il default. E’ successo tante volte in America Latina, è accaduto spesso anche in Africa. Ad oggi, come si diceva, la domanda spinge al ribasso gli interessi sul debito, ma alla prima inversione di tendenza, l’accumulo dell’esposizione potrebbe essere difficile da gestire. Il rischio, insomma, è che la storia si ripeta. E che a guadagnarci, alla fine, siano solo i fondi distressed, i celebri avvoltoi domiciliati nei paradisi fiscali che con i debiti spazzatura, del Terzo Mondo e non, fanno affari da una vita.