Cultura

“Cogan”: la politica, sottofondo vuoto della realtà americana

Adesso ci dirà che siamo una comunità, un unico popolo”, dice sprezzante il sicario Brad Pitt guardando distratto il teleschermo da cui Obama rassicura la nazione: l’America non è fondata sulle armi e la ricchezza, ma sulla democrazia e l’uguaglianza. Il futuro presidente – la scena si svolge nel settembre 2008 – lo accontenta subito: “Gli Stati Uniti sono una comunità”. Stronzate, sembra dire la faccia del killer che sentenzia: “Vivo in America, e in America sei da solo e badi unicamente a te stesso. L’America non è una nazione, è un’impresa d’affari”.

Con queste parole termina “CoganKilling them softly” di Andrew Domink, tratto dal romanzo Cogan’s Trade dell’ex procuratore aggiunto di Boston, George V. Higgins, scritto nel 1974. È il racconto di un regolamento di conti tra criminali, ma il regista neozelandese ha deciso di ambientarlo 34 anni dopo in una New Orleans ancora segnata dall’uragano Katrina.

Il cinema americano non ha mai avuto problemi a criticare i propri presidenti. Li ha raccontati con sprezzo (W. di Oliver Stone), ridicolizzati fino a farli polverizzare dagli alieni come accade a Jack Nicholson in “Mars Attack!” e li ha immaginati assassini come in Potere assoluto di Eastwood. Le note preferenze democratiche hollywoodiane non hanno neppure impedito di smascherare l’ipocrisia del partito dell’“asino”, come ha fatto Clooney ne “Le idi di marzo”.

Ma “Cogan – Killing them softly”, visto negli ultimi giorni di campagna elettorale Obama-Romney, fa una certa impressione, perché ha come tema centrale proprio la divaricazione assoluta tra il linguaggio fatuo dei politici e la realtà. Il messaggio pare essere: “Non stateli a sentire, la vita è violenta e questi vogliono solo fregarvi”.

Il film è ambientato durante l’irresistibile ascesa di un Obama, già presidente in pectore, verso la Casa Bianca. Televisori e radio mandano ossessivamente in onda la retorica del momento: “Io dico al popolo americano: questo momento è la nostra possibilità per fare della nostra vita ciò che vogliamo”.

La frase, disturbata e frazionata dai titoli di testa, è l’incipit del film, ma le immagini mostrano un piccolo delinquente in una landa desolata e squallida. Il film non dà solo un giudizio lapidario sulla politica, una colossale bugia, lo dà pure, e critico, su Obama e sulle sue promesse al vento. Paragonato a Bush, non a McCain. E chi se ne importa se dicono cose un po’ diverse (non troppo) l’uno dall’altro: non saranno mai tanto differenti tra loro quanto lo sono dal resto del mondo. Dalle persone che devono campare. In questo senso, nel film il crimine è semplicemente una moderna forma aziendale. I killer contrattano sul compenso e i committenti fanno appello alla recessione per sganciare di meno.

L’unica frase veritiera che esce dalla bocca del futuro presidente – pronunciata il 19 settembre 2008 – è “non c’è separazione tra Wall Street e Main Street” (la strada degli affari e la strada centrale dei villaggi western, quella del commercio, ndr), ovvero la finanza influenza quel che accade là fuori. Per il resto, Dominik affida la verità vera al killer, Brad Pitt come fece Michael Mann in “Collateral”, dove il feroce Tom Cruise decostruiva l’ingenuo immaginario del taxista Jamie Foxx ripetendogli che la vita è solo lotta per la sopravvivenza. E il resto, specie i discorsi dei potenti, sono un mucchio di balle.

La falsità della politica, i cui slogan servono solo a vendere un prodotto (i presidenti sono merci) in “Killing them softly” è però totalmente accettata dai cinici personaggi. Negli anni ’70 Robert De Niro, in “Taxi Driver”, urlava la propria rabbia contro il candidato democratico che scopriva ipocrita e narcisista, come tutti gli altri, e si faceva “giustizia” da solo.

Negli stessi anni, Robert Altman in “Nashville” dipingeva un’America profonda lobotomizzata dai messaggi elettorali come dalle canzoni country, e in cui la violenza poteva nascere improvvisa. Riadattato oggi, il romanzo di Higgins sembra dire che siamo diventati tutti criminali e non crediamo più in nulla. Non che la realtà sia meglio della politica: solo non usa mezzi termini e non deve accattivarsi nessuno. A distanza di 40 anni non c’è neppure più l’illusione che qualcuno possa essere in buona fede.