È valutazione comune che il ricorso alle biomasse (coltivazioni, alberi ad alto fusto, palme, barbabietole da zucchero, etc.) contribuisca a ridurre l’emissione di CO2. Così, di fronte ad un caminetto scoppiettante o al rabbocco con biocombustibile al nostro autoveicolo, ci sentiamo in pace con il clima che cambia. Ma uno studio appena pubblicato dal JRC, il centro comune di ricerche della UE che ha sede ad Ispra, ammonisce sulla possibilità che le attuali politiche bioenergetiche dell’UE aumentino le emissioni di gas a effetto serra nel breve termine.
Nel 2009, la Bioenergia costituiva più di due terzi della produzione primaria delle energie rinnovabili UE e verrà contabilizzata per più della metà delle riduzioni delle emissioni degli Stati previste per il 2020 nei loro piani di azione nazionali. Il nostro governo, nel suo piano energetico, sposta addirittura gli incentivi dal solare alle bioenergie.
Nel rapporto scientifico anticipato da Euractive si legge che: “l’uso di tronchi [alberi] proveniente da foreste a fini bioenergetici causerebbe un effettivo aumento dei gas serra: emissioni paragonabili a quelle di equivalenti combustibili fossili nel breve periodo”. Questo perché la combustione di un albero per produrre bioenergia – ad esempio in forma di pellet, legno o trucioli – rilascia tutto il carbonio che l’albero ha assorbito nella sua vita ma, contemporaneamente, riduce anche il deposito vegetale in grado di assorbire nuovo carbonio nella vita futura. Di conseguenza, si crea un “debito di carbonio” con un bilancio di emissioni sfavorevole rispetto alla produzione distruttiva e una tantum di bioenergia.
Le conclusioni del gruppo di scienziati sono che “con una corretta contabilità, la bioenergia da tronchi o da coltivazioni intensive non contribuirebbe a obiettivi politici di breve termine, come gli obiettivi del 2020, anche se l’uso di potature, puliture e residui (biomasse di seconda generazione) potrebbe invece dare un contributo considerevole”. Queste osservazioni sono di capitale importanza, dato che attualmente la UE valuta come neutri gli effetti delle biomasse e non evita né contabilizza così effetti indesiderati.
In effetti, la bioenergia sembrerebbe la scelta più semplice ed economica. In particolare per i trasporti, il biocombustibile o il biogas si inseriscono nel sistema e non c’è bisogno di cambiare molto: basta mettere biodiesel a base di olio di palma, soia e semi di colza e bruciarlo all’interno del sistema esistente.
Ad oggi non ci sono regole internazionali concordate sulla contabilità della CO2 per la gestione forestale. La bioenergia è semplicemente considerata come “carbon neutral” dallo stesso protocollo di Kyoto. Quindi, il cambiamento che sarebbe imposto da questo studio è molto vincolante e oneroso e viene perciò contrastato dai grandi produttori di legname e dalle corporation dell’agroindustria. Se nell’ambito della politica delle energie rinnovabili dell’UE le regole per premiare la creazione di disavanzi netti di emissioni fossero prese davvero in considerazione, molti dei prodotti in commercio (pellets, trucioli, agro combustibili) verrebbero disincentivati.
Nella Commissione europea cresce la convinzione che, come minimo, dovranno essere emanate indicazioni per permettere l’uso della biomassa solo a saldo di emissioni positive (calcolando quindi il ciclo vegetale, il ciclo del trasporto, la distruzione del territorio, oltre a tener conto della sottrazione di terreno alla salubrità o all’alimentazione). Questo fa pensare che i biocarburanti di prima generazione non saranno “il futuro dell’Europa”, dato che, pur apparendo amici del clima e ottenendo sovvenzioni, possono essere considerati addirittura peggio dei combustibili fossili che vanno a sostituire.
La questione è ancora più grave fuori Europa, dove le grandi compagnie distruggono suolo fertile per l’alimentazione ai fini di importare energia per la mobilità. Le nuove regole che saranno adottate dall’UE quasi certamente modificheranno i biocarburanti e conterranno misure volte a impedire incentivi per lo spostamento continuo delle colture alimentari per il carburante. Con una nuova crisi alimentare incombente e quasi un miliardo di persone sul pianeta che soffrono la fame, dobbiamo smettere del tutto di bruciare il cibo e di provocare volatilità dei prezzi alimentari. Favorire invece il settore biocarburanti di seconda generazione ha il potenziale di scatenare forti investimenti, ricerca e sviluppo industriale, nel mantenimento delle foreste e delle culture e, forse, nel settore delle alghe (bioenergia di terza generazione). Ma, mentre viene strombazzata la nuova Strategia Energetica nazionale (SEN), chi si sta occupando di tutto ciò nel nostro Paese?