Da fuori sembrano ritrovi di smanettoni alle prese con linguaggi indecrifrabili. E sicuramente è così se ti capita di imbatterti nella descrizione del funzionamento della macchina del caffé scritta con un diagramma di flusso oppure in magliette dagli slogan singolari “$> man woman$> Segmentation fault (core dumped)” (un aiutino: c’entrano i rapporti di coppia). Eppure c’è sempre un buon motivo per partecipare ad un Linux Day, la giornata annuale dedicata al software libero: immaginare le tendenze che trasformeranno la società dell’informazione nei prossimi anni e scoprire che molto spesso sono intorno a noi senza rendercene conto.
Ed il bello è che trovi sempre qualcuno disposto a raccontartelo e a chiarirti dubbi magari nella paura caffé tra un intervento e l’altro.Non ha fatto eccezione l’edizione di quest’anno a Bologna, la dodicesima organizzata dall’Emilia Romagna Linux User Group, associazione che riunisce gli appassionati dei sistemi operativi liberi rappresentati dal pinguino nella nostra regione. Liberi e non gratuiti, come spiega da sempre uno dei personaggi simbolo di questo mondo Richard Stallman, e ci tengono a precisare anche loro: “c’è una bella differenza: è software che si può copiare, studiare e modifica liberamente, ovvero non si pagano licenze di utilizzo, ma nulla vieta di farci un’attività commerciale sopra vendendo servizi come la personalizzazione per esigenze particolari e l’assistenza”.
Un modello diverso, quindi, che privilegia la diffusione della conoscenza rispetto alle posizioni di rendita, il pluralismo rispetto agli oligopoli. Nei nostri territori lo fanno già decine di imprese, piccole o piccolissime. Tanto che non è un caso che l’edizione di quest’anno si sia svolta nella sede di Confartigianato. Il tema era: come si fanno ad utilizzare questi strumenti per gestire i costi e migliorare la produzione in questo settore in tempi di crisi?
Una ricetta l’hanno indicata Francesco Boschetti ed Elena Ronchi, consulenti del settore che hanno spiegato come alle micro imprese conviene sposare la filosofia “agile” che si può tradurre così: sperimentare, fare piccoli investimenti, confrontare sempre le scelte con i risultati e fare modifiche in corso d’opera. E’ il modo con il quale si sviluppano molti progetti di software libero grazie al fatto che intorno nascono comunità che fanno proposte e verificano i risultati in tempo reale. Questo evita costi ed investimenti sbagliati. “E’ importante pensare le proprie attività di produzione, marketing, contabilità come tante piccole applicazioni – hanno spiegato – rispetto alle quali scegliere i giusti prodotti e fornitori. Dialogando, per trovare la giusta soluzione, vagliando diverse proposte. Per esempio strumenti come LibreOffice (il pacchetto libero di programmi per scrivere, fare calcoli e presentazioni equivalente al proprietario Office di Microsoft, ndr) piuttosto che i documenti di Google, permettono di abbattere i costi di licenza ed identificare una propria modalità operativa che poi si può modificare grazie alla versatilità degli strumenti”.
L’importante è mantenere alcuni punti fermi: dove risiedono i nostri dati e chi detiene il “know how” per fare funzionare gli strumenti che servono per lavorare. Due temi che vanno bilanciati, certo. Con pro e contro. Per esempio: Google è semplice e gratuito, ci permette di avere i nostri documenti ovunque c’è una connessione, ma che succede se qualcuno scopre la nostra password ed entra senza autorizzazione? E poi è vero che è meglio usare prodotti semplici per non perderci troppo tempo, ma bisogna evitare anche che il loro funzionamento sia demandato a fornitori esterni, preferendo far crescere competenze internamente. “Come è successo ad una impresa di ceramiche locale – ha continuano Elena Ronchi – che aveva un gestionale su un vecchio server linux. Quando è diventanto troppo vecchio l’hanno cambiato con uno nuovo, molto evoluto sul quale hanno centralizzato molti altri servizi. Il problema è che quando si è fermato nessuno sapeva come fare ed ha fermato anche la produzione. Ci è voluto del tempo per recuperare tutti i dati”.
Chi detiene le competenze. Un tema caro al mondo del software libero. E non è un caso se Blaine Cook, uno dei fondatori di Twitter poi fuoriuscito, a Bologna un mese fa per “From the Front 2012”, un meeting di designer professionisti del web, abbia detto che gli sviluppatori devono smettere di sviluppare per i social network, ovvero strutture per le quali le leve di comando (ed i relativi profitti) sono fermamente in mano ad altri. Meglio concentrarsi su qualcosa di nuovo. Un tema dal quale è partito anche Renzo Davoli, professore a scienze dell’informazione dell’Università di Bologna, nonché presidente dell’Associazione per il Software Libero che presentandosi come un “artigiano della conoscenza” ha mostrato come funziona il Raspberry PI. In pratica un computer delle dimensioni di una scatola di sigari, e con la forma di una scheda elettronica che costa meno di 30 euro, monta Linux e al quale si possono collegare altri componenti da comandare, ad esempio, comandare a distanza attraverso computer, smartphone, ecc. E le applicazioni nella dimostrazione dal vivo sono molte: dalla possibilità di accendere luci e dispositivi, al rilevamento di dati meterologici e fisico/chimici fino alla possibilità di diffondere un segnale video ad altri apparecchi casalinghi.
“Questo perché la TV non esiste – ha ricordato Davoli – è solo un monitor che si collega in maniera più o meno proprietaria ad un decoder dei segnali del digitale terrestre piuttosto che delle parabole. E se si rompe uno di questi elementi siamo costretti a buttare tutto e comprarne una nuova”. L’idea che c’è dietro è semplice: le innovazioni verranno da una nuova generazione di persone che tornerà a mettere le mani nella apparecchiature, smontandole e creandone di nuove, come è stato per i primi pc autocostruiti negli anni ‘60 e per i commodore 64 negli anni ‘80, piuttosto che girare intorno a cose fatte da altri. “Tanto più perché a Bologna abbiamo una forte tradizione di produzione di componentistica elettronica” ha aggiunto.
E’ l’architettura del cosiddetto web 3.0, del web che non sarà più fatto solo di siti ed oggetti digitali, ma di veri e propri manufatti fisici in rete tra di loro (computer, frigoriferi, lavatrici, ecc.) che si scambieranno informazioni e promettono di rendere più confortevole la vita in casa. E magari anche le città “smart” (intelligenti) per un futuro che il governo pensa di far partire con uno degli ultimi provvedimenti: l’agenda digitale e a Bologna si racconterà alla “Smart City Exhibition” della prossima settimana. Ma se questo è il futuro, il messaggio che viene dal Linux Day è chiaro: a patto che sempre più persone riescano ad accedere a questi saperi, per progettarlo insieme e non essere solo utilizzatori finali.
E poi c’è stato anche il Linux Day della creatività artistica e dell’apertura verso altri mondi. Per esempio quello dei seminari di Paolo Patruno sull’audio digitale. Oggi con software come Audacity è possibile fare progetti audio di una cerca qualità magari da condividere in rete (c’è una lista di discussione per chi è interessato). Oppure Fabio Iaci che ha presentato Pure Data per fare musica elettronica in maniera interattiva e che è anche promotore di un progetto carino: la mappa sonora di Bologna. E ancora l’OfPCina che ha aperto da poco tempo uno spazio a Bologna dove tiene corsi sul software libero ed aiuta le persone a riparare e riciclare vecchi computer obsoleti per il mercato ma a tutti gli effetti ancora funzionanti. Insieme all’associazione Campi Aperti sono stati protagonisti di un intervento che ha provato a fare qualche riflessione sulle analogie tra le quattro libertà del software libero e le 10 colonne dell’economia solidale nati dal Coordinamento Regionale per l’Economia Solidale Emilia Romagna.
A breve questi ed altri materiali della giornata saranno sulla pagina dell’evento e la tessera di iscrizione ad Erlug per quest’anno costa 10 euro. Una volta tanto difendere un principio di libertà costa anche poco.