Shamiur Rahman ha 19 anni ed è un cittadino americano di origini bengalesi. Vive a New York e, fino a pochi giorni fa, conduceva una doppia vita: giovane musulmano modello per gli amici, informatore e spia nella comunità islamica cittadina per la polizia di New York. Rahman ha raccontato la sua storia ad Adam Goldman e Matt Apuzzo di Associated Press (AP), facendo cadere la propria copertura e deciso a tornare a riconquistare la fiducia della gente che ha “usato per fare soldi”. E negli Stati Uniti si riapre la polemica sui mezzi non convenzionali che il New York Police Department (NYPD) ha utilizzato dall’11 settembre 2001 in poi per contrastare il terrorismo islamico in patria.
Fermato per la terza volta per detenzione di stupefacenti, Rahman viene avvicinato da un poliziotto in borghese che lo invita a “dare una svolta alla sua vita”. Dal mese seguente entrerà nel libro paga del NYPD: 1000 dollari al mese per origliare conversazioni, scattare foto nelle moschee, riferire di qualsiasi individuo sospetto nella comunità islamica locale e, soprattutto, tendere delle trappole ai fedeli, testando le loro reazioni in discorsi riguardanti terrorismo, jihad, rivoluzione. Rahman, dopo un breve addestramento, inizia a raccogliere materiale da consegnare al suo agente di riferimento, Steve, col quale è anche in contatto telefonico. Steve è molto soddisfatto del lavoro del suo nuovo mosque crawler, come in gergo vengono chiamate le spie all’interno delle moschee. E Rahman è convinto di “difendere New York City”. Si sente “un eroe”.
Presentandosi alla comunità islamica come un ex drogato in cerca di redenzione, Rahman inizia a stringere amicizie nelle moschee del Queens, frequentando una serie di incontri, conferenze universitarie, consegnando di volta in volta a Steve gli elenchi dei partecipanti ad una scuola coranica, il numero di telefono di un imam, fino ad aizzare i suoi amici in discussioni molto sensibili, nella speranza di scovare una “gaffe dell’interlocutore” da rivendere alla polizia. Ad esempio, racconta Rahman ad AP, chiede opinioni e reazioni sul recente attacco al consolato americano in Libia, ben conscio di toccare un argomento scottante per “fare soldi”, “giocarmi la partita”.
Ma durante il periodo da informatore della polizia, durato alcuni mesi, Rahman non incontra nessun personaggio sospetto. Anzi, spiando i suoi amici nota che “a volte portavano del cibo alle famiglie musulmane bisognose”. Decide di abbassare la maschera il 2 ottobre, svelando il suo segreto su Facebook e tagliando ogni ponte col NYPD. Secondo i reporter di AP, il numero telefonico di Steve risulta ora disattivato e la polizia, alla richiesta di un commento, si è chiusa in un silenzio stampa. I metodi non convenzionali utilizzati dalle forze dell’ordine di New York, sviluppati assieme alla CIA dopo l’attacco alle Torri gemelle, sono stati giudicati eccessivi ed ambigui da una parte dell’opinione pubblica americana. La sicurezza Usa è accusata di sorpassare il limite tra investigazione ed incitamento ad azioni terroristiche create ad arte, spingendo giovani facilmente influenzabili a voler compiere “attentati” che probabilmente, senza le imbeccate di finti militanti di al Qaeda, non avrebbero mai compiuto.
Solo la scorsa settimana Quazi Mohammad Rezwanul Ahsan Nafis, un cittadino bangladeshi di 21 anni, era stato fermato dall’FBI proprio a Manhattan, accusato di voler far saltare in aria una delle sedi della Federal Reserve, la Banca centrale americana. Appena arrivato in Usa con un visto da studente, Nafis entra in contatto con un agente FBI sotto copertura. Spacciatosi per terrorista, l’agente non solo guidò Nafis nella scelta dell’obiettivo e nella preparazione dell’attentato, ma gli fornì del finto esplosivo, lo accompagnò davanti alla Fed con un pulmino, armarono insieme la “bomba” e sempre insieme presero una stanza in un hotel con vista. Quando Nafis premette il bottone per la detonazione a distanza, non esplose nessun pulmino; il suo complice lo aveva già ammanettato.
di Matteo Miavaldi