'Che tempo che fa del lunedì' con Fazio e SavianoMarziani in televisione ce ne sono tanti, ma nessuno assomiglia all’indimenticabile Marziano a Roma di Ennio Flaiano più di Roberto Saviano. Quando l’autore di Gomorra atterrò sui teleschermi due anni fa, con il comitato di accoglienza presieduto da Fabio Fazio, si gridò al miracolo, all’inizio di una nuova era catodica dove grandi ascolti e grande impegno, i fini più nobili e i mezzi più umili potevano finalmente darsi la mano.
In quell’atterraggio Saviano parve davvero un marziano nella nostra miserabile tv, dove uno scrittore anchorman non si era ancora visto (di solito in Italia le cose vanno al contrario: prima si diventa anchormen, e subito dopo scrittori). Un anno dopo, quando l’alieno si vide costretto a emigrare alla 7, e il fido Fazio venne via con lui, il fido Fazio annunciò “Riporterò Saviano in Rai”, proprio come se fosse Pippo Baudo. Così è stato, e ora il fido Fazio promette di portarlo addirittura al Festival di Sanremo. Bene; ma intanto che ne è del nostro marziano? Ogni lunedì sera lo vediamo su Raitre a Che tempo che fa, dove interpreta il monologo conclusivo, e dove i suoi ascolti sono in lento ma costante declino. L’altra sera tra lui e Del Debbio c’era poco più che un’incollatura; segno che il disincanto generale non risparmia nessuno, e insomma, il nostro eroe si sta avviando a una normalità che, se si addice ai comuni mortali, non si addice affatto agli extraterrestri.

Come spiegarsi questa normalizzazione? Prima di tutto, creare un evento alla settimana è epistemologicamente impossibile, come è impensabile un alieno a orario continuato, che timbri il cartellino. In secondo luogo, il contesto non aiuta. La versione del lunedì di Che tempo che fa ha qualcosa di compunto, di grave, di cupo; quando poi Saviano si prepara a officiare, lo stesso Fazio è sempre più simile a un chierichetto, e in questa sua metamorfosi, se osservata in controluce, nella penombra vespertina dello show, appare in filigrana la parabola di troppa sinistra, quel Partito Moralista Italiano che ama far sentire in colpa gli altri, e, se si diverte, si sente in colpa lui.

Al più inedito ricatto della forma, segue poi il tradizionale ricatto del contenuto. È vero che i monologhi di Saviano, si parli di camorra, di crisi, di giovani disoccupati o di morti ammazzati (come lunedì scorso), non mancano mai di intensità; ma vivono di una una tecnica ormai sperimentata, affidata al gusto della narrazione, questo termine vendoliano che non si capisce bene che cosa significhi (a meno che non significhi quello che non si capisce bene). Insomma, a Che tempo che fa Saviano, più che essere se stesso, lo fa. Lo fa bene, benissimo, ma non fa altro, e alla lunga è inevitabile che gli spettatori lo diano per scontato. Dovessimo dare un consiglio al nostro marziano, sarebbe quello di riprendere la sua astronave, abbandonare le narrazioni televisive e magari scrivere quel seguito di Gomorra che aspettiamo da sei anni. Poi, naturalmente, qualcuno dirà che andare a Sanremo sarà un modo per sensibilizzare le grandi masse, parlare alla pancia del Paese e, perché no, pure agli intestini.

Qualche anno fa girava in video un prete ballerino che diceva di andare tutte le sere in discoteca per evangelizzare i giovani; chissà se qualcuno gli ha spiegato che a volte, a forza di indicare agli altri la retta via, si rischia di smarrire se stessi.

Il Fatto Quotidiano, 1 Novembre 2012

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