A Fukushima Daiichi quasi metà del pesce al largo della centrale nucleare è ancora contaminato. A rivelarlo è una ricerca del biologo marino Ken Buesseler. Che, basandosi sui dati ufficiali del ministero giapponese dell’Agricoltura, delle foreste e della pesca, avverte: “Il 40 per cento del pesce contiene troppo cesio per essere sicuro per il consumo umano”. Il motivo? La disastrata centrale nipponica rilascia ancora radioattività. Secondo lo studio Fishing for Answers off Fukushima, pubblicato sulla rivista Science, la contaminazione è dovuta in particolare alle radiazioni accumulate sui fondali marini: una conseguenza del fallout radioattivo dell’incidente, riversatosi per l’80% nell’Oceano Pacifico. Ma anche del fatto che, per raffreddare ciò che rimane dei reattori, ogni giorno vi si versano sopra diverse tonnellate di acqua, destinate ovviamente a finire in mare. Gli effetti del disastro, per lo scienziato americano, non sono dunque da considerare solo “a lungo termine”, ma anche da “monitorare molto bene nei decenni a venire”.

Dopo un anno di analisi dei dati ufficiali del governo giapponese, il professor Buesseler dello Us Woods Hole Oceanographic Institution è giunto a una conclusione: il cesio-134 e 137 trovati in gran parte del pesce e dei crostacei pescati al largo di Fukushima sono dovuti a perdite di radioattività ancora presenti nella e attorno alla centrale. Come spiega lo scienziato, il cesio normalmente non rimane a lungo nei tessuti dei pesci marini, in quanto ogni giorno rifluisce in piccole dosi nell’acqua dell’oceano. Quindi, se oggi nella fauna ittica c’è del cesio-134, che per perdere metà della sua radioattività ha bisogno di soli due anni, è perché quei mari sono ancora quotidianamente esposti alla radioattività (il tempo di dimezzamento del cesio-137 è invece di trent’anni).

Un problema ambientale, ma anche economico. Le grandi quantità di acqua sversate costantemente sui reattori della centrale atomica e i sedimenti radioattivi sui fondali marini, infatti, non permettono al settore ittico locale di riprendere la sua regolare attività. Colpa di una “situazione instabile – puntualizza Buesseler – che non consente alle autorità di decidere sulla riapertura all’attività di pesca in questa zona”. Una cautela d’obbligo, secondo Tokyo, che lo scorso aprile ha imposto limiti di radioattività ancora più stringenti. Risultato? L’industria ittica nipponica ha perso su tutti i fronti: a livello di esportazioni, nell’ultimo anno si è visto un calo del 7,4%; per quanto riguarda il mercato interno, invece, gran parte dei giapponesi, fra i maggiori consumatori pro capite di pesce al mondo, ancora non si fida ad acquistare prodotti locali.

Secondo Ken Buesseler, che presenterà i risultati del suo studio all’università di Tokyo il 12 e il 13 novembre, il problema è però più complesso: “In Giappone c’è una grande incertezza nel pubblico su ciò a cui si può credere, o su chi dice o meno la verità”. E quando si parla di radioattività, si sa, “ci sono di mezzo molto allarmismo e molta paura”. Un allarmismo che, secondo lo scienziato americano, in questo caso sarebbe da evitare: “La maggior parte del pesce catturato al largo della costa nord-orientale giapponese – rassicura – non presenta livelli di radioattività pericolosi per la salute umana”. Inoltre, per fronteggiare le conseguenze del “più grande rilascio accidentale di radiazioni verso l’oceano della storia”, bisognerà andare “ben oltre gli studi sulla fauna ittica”, conclude il ricercatore statunitense: “Ciò di cui abbiamo veramente bisogno è una migliore comprensione delle sorgenti di cesio e altri radionuclidi, che continuano a provocare ciò che stiamo vedendo nell’oceano al largo di Fukushima”.

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