Figlio d’arte (il padre, George W., fu governatore del Michigan, la madre Lenore provò a diventarne senatore); esperienze da missionario in Francia (i mormoni mandano i figli a cercare di fare proseliti nella miscredente Europa); laureato alla Brigham Young University (l’ateneo mormone di Salt Lake City) e poi ad Harvard, dopo gli studi si mise in affari con risultati brillanti. La fortuna accumulata e l’abilità a proteggerla dal fisco – un punto debole nella sua campagna – gli permisero di finanziarsi gli esordi in politica. Si candidò a senatore nel 1994, ma scelse Stato e collegio sbagliati: il suo avversario era Ted Kennedy, destinato a tenere il seggio fino alla morte, uno praticamente imbattibile.
Poi si dedicò alla candidatura di Salt Lake City ai Giochi invernali e, quindi, alla preparazione delle Olimpiadi come presidente del comitato organizzatore: pareva dovesse essere un disastro finanziario; invece, divenne un affare. Nel novembre 2002, fu eletto governatore del Massachussetts: un’impresa, perché lo Stato di Boston ha una grossa tradizione democratica. Nei quattro anni del suo mandato realizzò, da buon repubblicano, tagli della spesa pubblica e aumenti delle tariffe, azzerando un deficit ipotizzato di tre miliardi di dollari. Il suo risultato di maggiore spicco, che ora gli causa imbarazzo, fu la riforma dell’assistenza sanitaria statale: Romney garantì una copertura a quasi a tutti i cittadini per la prima volta in tutta l’Unione. Proprio a quella esperienza s’ispirò in parte il presidente Barack Obama, nel varare la sua riforma sanitaria nazionale, l’Obamacare, che adesso Mitt promette di abolire appena sarà in carica, se mai lo sarà. Nel 2006, Romney non cercò un secondo mandato. Pensava già alla nomination 2008 e, intanto, spostava la sua retorica su posizioni più conservatrici, così da non essere percepito come un corpo (troppo) estraneo all’anima più profonda (populista, sudista, evangelica) del partito repubblicano. Conclusa l’avventura delle primarie 2008 e perse poi dai repubblicani le presidenziali, Mitt continuò a prepararsi alla Casa Bianca.
Nella campagna 2012, il miliardario mormone ha dimostrato tenuta e costanza: è praticamente sempre rimasto in testa ai sondaggi. E i repubblicani dell’establishment, quelli che hanno posto di lavoro a Washington e casa a Georgetown, oppure nei sobborghi eleganti della Nord Virginia intorno al District of Columbia, preferivano, sotto sotto, il rischio di perdere con Romney che quello di vincere con qualche ingombrante e ingestibile alfiere del Tea Party. Famiglia con pedigree, le stimmate dell’uomo di successo conservatore (moglie a casa – Ann gli è sempre stata un valido supporto – e figli in carriera), Romney ha abbastanza esperienza per evitare, da presidente ai primi passi, errori o ingenuità. Contro di lui ci sono, però, il grigiore, l’uniformità, la monotonia: Mitt è spesso percepito come una persona noiosa, che manca di brillantezza, anche se nei duelli televisivi con il rivale democratico se l’è cavata molto meglio del previsto. E quando esce dal seminato sbaglia: fra le frasi celebri del suo percorso, il “mi piace licenziare” e le espressioni di disprezzo per il 47% di cittadini americani poveri e latinos che vivrebbero di aiuti pubblici (e, soprattutto, votano per Obama). Dalla sua, c’è la debolezza dell’economia, che non è ancora uscita dalla crisi lasciata in eredità all’America dalla presidenza repubblicana di George W. Bush. Contro di lui, c’è – e potrebbe rivelarsi decisivo – il fatto che non eccita né il Tea Party né gli evangelici della fascia della Bibbia: senza l’appoggio di queste due constituencies conservatrici è davvero difficile che un repubblicano entri alla Casa Bianca. Ieri ha chiesto di votare per lui “per amore della nazione”, in Ohio dove Obama aveva invocato un voto “per vendetta”. La sua buona educazione, il sorriso stampato, i capelli sempre in ordine, sono punti di forza ed elementi di debolezza: Romney non scalda le folle; non predica, e quindi non seduce gli evangelici; e non alza la voce, e quindi non attrae i populisti anti-tasse del Tea Party. Piace alla finanza e alle grandi imprese, che lo hanno foraggiato, ma hanno più soldi che voti.
Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2012
Nella precedente puntata: il profilo di Barack Obama