Trovo fastidioso l’infinito discorso sul Ponte sullo Stretto. Sì, proprio quel modellino in scala per tre chilometri e trecento metri di cemento sul mare, quello di cui si parla da 42 anni (la prima legge è del 1970) e che lo Stato finanzia da 31 anni, da quando nel 1981 fu costituita la società “Ponte sullo Stretto Spa”. Soci: Ferrovie, Anas, Regioni Sicilia e Calabria. Tra appalti, progetti, plastici, nuove società, interessi passivi e penali, con la metà dei soldi che ha speso negli ultimi 40 anni per progettare il Ponte sullo Stretto di Messina, lo Stato avrebbe potuto rendere meno medioevale il sistema dei trasporti in Sicilia. I calcoli della spesa finora fatta – senza Ponte – vanno dai 500 agli 800 milioni di euro (per chi fa ancora questo paragone mentale, parliamo di 1.000-1.600 miliardi di vecchie lire).

Da più di un decennio, la Spa ha un presidente (l’ex ministro in pensione Zamberletti) ed è un “luogo di sottogoverno” come la vecchia Casmez: gli Enti presenti in Cda collocano in quella scatola vuota personalità alle quali dare un “posto” e un compenso per 443mila euro complessivi l’anno. La Ponte Spa dà poi lavoro a 53 persone. Costo annuo: 4-5 milioni di euro.

Il prezzo del progetto di Ponte è lievitato nei decenni come l’inflazione e l’aggiornamento prezzi degli appalti; poi – nel passaggio all’euro – è raddoppiato: da una stima iniziale di quattro miliardi, ora costerebbe quasi nove miliardi. In tempi di spending review, questa opera sanguisuga continua a non esistere e a succhiare soldi: il governo Monti prima l’ha archiviata e poi ha posticipato l’archiviazione di altri due anni. Per trovare il modo di non pagare una penale di altri 312 milioni, prevista dal contratto in caso di cancellazione del progetto. Una trappola mangiasoldi.

Il Ponte non è mai stato un buon affare per tutti, non solo per le ragioni economiche e di buon gusto scritte da Giorgio Meletti su questo giornale (Il Fatto Quotidiano, sabato 3 novembre, pagina 10), ma anche per una ragione più “poetica”. L’idea di quei tre chilometri di sbarco senza traghetto distrugge i ricordi, non esiste mai e rappresenta solo la fine dell’insularità e l’inizio di un nuovo mega-affare edilizio. La distruzione della malinconia (quella di Vittorini nel suo viaggio letterario in treno verso “Conversazione in Sicilia”) a ogni distacco dall’isola, seduti sul traghetto, mentre una costa si fa orizzonte e l’altra si trasforma in approdo. Sì, certo: chi se ne frega dei ricordi pre-moderni (che però non sono solo miei). Giusto. Ma chi crede ancora che questo Ponte si faccia e sia utile allo sviluppo del sud, alzi la mano.

Ho letto – e sorriso – la leggenda sulla prima idea di fare un ponte tra Cariddi e Scilla: la ebbe il console romano Lucio Cecilio Metello, nel 251 a.c. Lui aveva il problema di trasportare sul continente 150 elefanti catturati ai Cartaginesi nella battaglia di Palermo, prima Guerra punica.

Ecco, quella lontanissima idea di ponte su barche e botti con gli elefanti che – non si sa come – ci sarebbero dovuti camminare sopra, è una metafora dell’oggi. Chiunque sia nato negli ultimi 50 anni in Sicilia, duemila anni dopo l’era del console romano, è cresciuto convivendo con le leggende sul Ponte.

Nel 1840, fu Ferdinando di Borbone a dare a un architetto il primo incarico della storia moderna sulla fattibilità dell’opera.

Se una notizia dura per millenni o solo per decenni, vuol dire una sola cosa: è una bufala, un illusionismo, non accade. Provate a immaginare se negli anni Trenta del Novecento, a San Francisco non fossero riusciti a fare – in quattro anni – il Golden Gate Bridge. Quell’opera moderna esiste semplicemente perché era fattibile; questa invece si progetta da secoli ma finora è servita solo a traghettare soldi pubbliche. E continua a traghettare altri affari: per esempio un raccordo inutile a Messina tra il quartiere Boccetta e il luogo del futuro pilone in terra siciliana; progetto – “complementare al Ponte” ma non al caotico traffico della città – già in stato avanzato di progettazione.

Ora la Sicilia ha le casse bucate da 18 miliardi di debiti. Un Ponte spaziale per salire a bordo di un’isola senza ferrovie, fogne, con acquedotti colabrodo e strade ottocentesche. Uno sberleffo ai bisogni di cinque milioni di persone, la metà senza lavoro, una casa decente, scuole.

E allora: lo Stato paghi alla Ponte sullo Stretto Spa le fatture su trivellazioni, incarichi, plastici e consulenze. Il conto ammonterebbe a 13 milioni. Paghi quei soldi, chiuda la Spa e questa storia. E poi faccia strade e ferrovie in Sicilia, tuteli i parchi, costruisca asili e valorizzi il patrimonio archeologico abbandonato. Finiranno le leggende e inizierà lo sviluppo.

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