La notte di Obama; il paese di Obama; Obama, Obama, Obama. E’ la festa dell’America democratica che si irradia da Chicago per tutti gli Stati Uniti (e l’Europa e il resto del mondo).
E il primo presidente afroamericano ridiventa l’uomo della provvidenza. Quanta felicità vera nei volti degli Obama (e dei Biden) sul palco della McCormick arena. E dunque immaginabile quanto sollievo reale per il successo di una sfida che ha dunque davvero fatto temere la sconfitta. Felicità per la vittoria, ma soprattutto perché è finita, ed è finita presto (anche se non ancora in Florida, lo Stato della maledizione delle urne, questa volta non decisivo) ed è finita bene. “Ci resta del lavoro da fare”, ha detto orgoglioso Obama. E ce ne è parecchio in arretrato, che ora il presidente può affrontare come un nuovo inizio.
A cominciare da davanti casa sua: nel Congresso che si erge a poche centinaia di metri dalla Casa Bianca e che è sempre più il simbolo dello stallo e della divisione politica che in questi anni non è stata risolta (anche per responsabilità dell’uomo più potente del mondo, alle volte non così potente nel suo paese).
C’è modo di meritarsi appieno il Nobel per la Pace vinto a sorpresa dopo aver messo a malapena piede alla guida della superpotenza mondiale. E poi c’è la crisi, nell’economia e negli “hearts & minds”, nei cuori e nelle teste degli americani, la crisi che ha portato un onesto sfidante come Romney a “rischiare di vincere” come si dice banalmente nelle sintesi sportive. Ha vinto Obama, ora si deve meritare la vittoria.
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